Il massacro si compie di notte, quella tra il 6 e il 7 luglio del 1945. La guerra è ormai finita ma il tempo della vendetta, dei fratelli contro, è appena iniziato. A Schio vecchi odi, ferite mai rimarginate e invidie si mischiano in nome della giustizia. Sangue chiama sangue. Anche perché la ritirata tedesca, in questa parte di Veneto, è stata particolarmente violenta. Gli attacchi dei partigiani sono frequenti e i soldati di Hitler rispondono con terribili rappresaglie. Sangue chiama sangue. Anche dopo il 25 aprile quando, almeno sulla carta, l’Italia è un Paese in pace.
A Schio i partigiani vogliono eliminare i fascisti del posto. O, almeno, quelli che reputano tali. La divisione più attiva è quella comunista Ateo Garemi che decide, in quella notte di estate, di eliminare i detenuti politici presenti all’interno del carcere cittadino. Dietro le sbarre ci sono sia uomini sia donne e qualche anima pia chiede che quest’ultime vengano risparmiate. Ma non c’è nulla da fare. “Gli ordini vanno eseguiti”, dice il partigiano Valentino Bortoloso, detto “Teppa” che, qualche anno dopo, riceverà anche una medaglia (poi revocata) della Liberazione. Anche le donne, quindi, vengono messe in fila e falciate dai fucili. Rimangono a terra 54 persone. Le scale dell’edificio si riempiono di sangue. È una vera e propria mattanza, tanto che il generale Dunlop, governatore del Veneto che aveva seguito le indagini, dirà: “Non è libertà, non è civiltà che delle donne vengano allineate contro un muro e colpite al ventre con raffiche di armi automatiche a bruciapelo”.
Non era libertà quella. Era l’inizio di una ferita che non si è ancora rimarginata, nonostante i parenti delle vittime abbiano firmato un patto di concordia civica con l’Associazione nazionale partigiani d’Italia (Anpi). Una targa è stata affissa in quella che è oggi la biblioteca di Schio e che, ai tempi del massacro, era il carcere. Ma all’interno dell’edificio, in modo tale da non disturbare nessuno. Ma non solo. Parlare di quanto successo in quella notte non è affatto facile, come ci racconta un parente di una vittima, che preferisce restare anonimo: “Non sono mai stato minacciato ma sono “segnato col dito”. Qua a Schio la sinistra ci guarda con un certo malessere: non puoi mai dire una parola fuori posto, non puoi mai dire ‘io la penso diversamente da te’”.
L’uomo viene a conoscenza del massacro quando è già grande. Ci racconta la storia della sua parente. Era una donna e non aveva colpe, se non quella di fare l’amore, come dicevano i suoi genitori, con la persona sbagliata. “Nessuno ne parlava mai. Anche quando arrivava il 7 luglio, il giorno della commemorazione, nessuno mi ha mai detto niente. Era un tabù parlarne a casa mia”. Ma non è l’unico a dover vivere questo dolore in silenzio: “Anche a un mio amico intimo hanno ammazzato parenti a cui era molto legato perché erano davvero stretti. Lui non ne vuole più parlare, né sentire alcunché.
Purtroppo qui a Schio c'è una grande intolleranza verso chi non la pensa come loro. Se lo fai sei ‘morto’”.È il passato che non passa. Quel passato fatto di sangue e odio che una certa sinistra continua ad alimentare.
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