Il processo sulla Strage di Erba, il mistero delle intercettazioni scomparse

Si ritorna a parlare del dossieraggio dei cosiddetti spioni di Telecom che hanno registrato centinaia di ore di conversazioni tra Olindo Romano e Rosa Bazzi e dell'unico testimone sopravvissuto, Mario Frigerio

Il processo sulla Strage di Erba, il mistero delle intercettazioni scomparse
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C’è un filo rosso che lega il processo sulla Strage di Erba al dossieraggio dei cosiddetti spioni di Telecom? Nell’ultima puntata del podcast Youtube Il Grande Abbaglio curato in collaborazione con Edoardo Montolli si ritorna a parlare delle migliaia di intercettazioni misteriosamente scomparse di Olindo Romano e Rosa Bazzi e del testimone sopravvissuto, Mario Frigerio. Meno di dieci entrarono al processo di cui oggi si discute la revisione (la prossima udienza è fissata al 10 luglio): tutte le altre furono considerate non utili, quasi mai trascritte e nemmeno riassunte, come ricostruito nel 2010 e nel 2011 sul settimanale Oggi.

Perché mancano tali intercettazioni? Questo è un vero problema, perché le microspie si attivano anche soltanto attraverso un colpo di tosse, il rumore d’apertura di un rubinetto. Invece agli atti non c’è nulla. Come se Olindo e Rosa non fossero stati in quella casa dove invece erano presenti. O come se Frigerio non fosse stato nella sua stanza d’ospedale, dove invece si trovava. Si erano rotte le microspie? Impossibile, perché i carabinieri non hanno mai stilato un verbale attestandone la rottura. Come diavolo è possibile allora che sia successa una cosa del genere? Le intercettazioni furono svolte con apparecchiature della Sio di Cantù. Ma non fu la Sio di Cantù ad aver consegnato copia delle intercettazioni e dei brogliacci alla difesa dei coniugi: fu un’altra società, la Waylog, che, come scoprimmo nel 2019, era all’epoca controllata al 40% da una fiduciaria svizzera, la Fenefin, gestita per conto di soci anonimi dal commercialista Renato Bullani, con sede in Chiasso, corso San Gottardo 32.

E qui il mistero si lega a Giuliano Tavaroli, l’ex capo della security di Telecom e al centro del cosiddetto caso degli spioni di Telecom (scoppiato poco prima della strage di Erba) che dava disposizioni di pagare alcune società di investigazioni, tra cui il Tiger Team di Fabio Ghioni, per le sue operazioni da hacker tramite la Fenefin Limited della Nuova Zelanda. Con conti accesi sempre presso Barclays Bank di Londra, ma gestita dallo studio Renato Bullani con sede in Chiasso, corso San Gottardo 32.

Si tratta di una società che ha quasi lo stesso nome, la stessa sede e lo stesso amministratore, Renato Bullani, della Fenefin socia di Waylog. Sarà una coincidenza. Di certo, secondo l’Anticorruzione, contattata dalle Iene, una Procura non può dare alcun incarico a una società che si schermi dietro una fiduciaria. A meno che il ministero competente non abbia appositamente autorizzato la società stessa, che deve comunque anche in quel caso comunicare l’identità dei soci nascosti. Così non risulta. Chi c’è allora dietro la Fenefin di Waylog? E com’è possibile che le intercettazioni del più grave fatto criminale della storia della Repubblica siano state affidate ad una società i cui proprietari sono per buona parte sconosciuti allo Stato? E, ancora, com’è possibile che alla difesa di due imputati sia sempre stato impedito di accedere ai server originali delle intercettazioni per trovare quelle mancanti, mentre sia stato possibile gestirle da persone per buona parte sconosciute allo Stato? Secondo il sostituto Pg di Milano Cuno Tarfusser che ha presentato la richiesta di revisione «in qualche modo dietro alla Waylog qualche ombra di magistrato c’è».

Si tratta di accuse gravissime, di cui non possiamo trovare riscontri, proprio in base alla legislazione elvetica. Ma di più Tarfusser non dice. Rimane tuttavia, in questa storia, un’altra coincidenza, forse la più incredibile. Ovvero, la Procura di Como trovò un solo detenuto disposto a dire in aula che Olindo Romano non gli aveva mai fatto capire di essere innocente. Non dieci, non cinque, non due. Uno solo. Ed è proprio Giuliano Tavaroli. Il fatto strano è che la difesa portò in aula un altro detenuto, Sergio Dominichini, che giurò che a lui Olindo aveva sempre detto di essere innocente.

La stranezza? Dominichini era entrato in cella esattamente il giorno dopo l’uscita dal carcere di Tavaroli. Come se, in appena 24 ore, Olindo avesse radicalmente cambiato idea sulle proprie responsabilità: non più colpevole, ma innocente.

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