Pietro Randelli, direttore della Prima Clinica di Ortopedia e traumatologia dell'Asst Gaetano Pini, direttore del Comitato tecnico scientifico e della Scuola di Specialità di Ortopedia della Statale, cosa chiede al futuro assessore al Welfare?
«Il problema delle liste d'attesa è un discorso serio. Abbiamo 600 pazienti che stanno aspettando da un paio di mesi l'intervento di protesi. Per poter smaltire questi interventi abbiamo bisogno di più spazi e personale qualificato e stiamo vivendo tutti una carenza di infermieri, fondamentali per la chirurgia. La dg Welfare ci ha dato risorse aggiuntive per recuperare l'arretrato Covid ma l'idea, e credo di parlare un po' a nome di tutti gli ortopedici in Lombardia, è che è necessario continuare a lavorarci. Servono aree aggiuntive, aree in cui possiamo operare oltre gli orari canonici e fondi. Basti pensare che concludiamo gli interventi verso le 20,30 /21 per poter trattare le fratture del collo del femore che colpiscono gli anziani (sono 800 l'anno circa solo al Pini) e che vanno trattate entro le 48 ore e le protesi nel minor tempo possibile e anche il sabato nelle due strutture».
Come si può incidere ulteriormente sulle liste?
«Ampliando e ottimizzando le strutture ospedaliere al massimo: continuando a investire sugli ospedali pubblici e aggiornando le tecnologie che permettono di accorciare i tempi a livello chirurgico».
Ci fa un esempio?
«La Regione ha investito in una Tac intraoperatoria che arriverà tra un paio di mesi e che sarà la più innovativa in Europa nel 2023. È una tac tridimensionale che permette al chirurgo oncologo ortopedico che deve asportare un tumore, di eseguire la tac mentre opera, per aggiustare la resezione, immediatamente. Questo permette di ottimizzare i tempi. Così per la chirurgia elettiva della colonna vertebrale permette di inserire le viti nella colonna, sotto la guida della Tac tridimensionale che permette di ottenere una precisione millimetrica. Si evita che ci siano complicazioni intraoperazionali o siano necessari altri interventi per riposizionare le viti».
Bisogna lavorare anche per tagliare i tempi per le prime visite?
«Sicuramente! Potenziando le aree remunerate dalla Regione per fare le visite a carico del Servizio Sanitario Nazionale oltre l'orario, con una remunerazione extra».
Crede che una revisione della rete ospedaliera con un ritorno al modello hub&spoke permetterebbe di ottimizzare le risorse?
«In ortopedia abbiamo qualità molto elevata nella maggior parte degli interventi standardizzati, in ogni ospedale della regione. È giusto quindi che i pazienti possano trovare sul territorio risposte di qualità anche perché l'ortopedia è una specialità diffusissima: il 70 per cento dei cittadini che afferiscono a un medico di base hanno problematiche ortopediche».
Ci sono casi in cui questo modello può risultare vincente?
«Sì, per i casi complessi come pazienti che hanno subito interventi di protesi che sono andate male, con problematiche di infezioni o che sono particolarmente complicati. È giusto che siano centralizzati in alcune strutture. Ma nella traumatologia dell'anello pelvico, un tipo di frattura che può portare alla morte in poche ore, è già stata creata una rete di 7 strutture».
Per quanto riguarda la formazione, lei dirige la Scuola di specialità: come colmare la mancanza di specialisti?
«Intanto c'è una logica nazionale di distribuzione delle risorse: l'assessore al Welfare potrebbe fare pressing per avere più borse di studio in ortopedia e traumatologia per la Lombardia, anche se negli ultimi 3/4 anni la scuola di Milano è passata da 20 specializzandi l'anno a più di 30».
Rimane però il problema della fuga dagli ospedali...
«Sia della fuga che della scarsa appetibilità di alcune realtà dove i turni sono massacranti e le retribuzioni non concorrenziali con il privato convenzionato, che non prevede turni o pronto soccorso. Urge aumentare i salari degli infermieri che emigrano in Svizzera dove sono pagati molto di più o tornano al sud dove lo stipendio ha un altro valore. E anche degli specializzandi».
Cosa potrebbe fare la Regione per potenziare la formazione?
«Gli ospedali pubblici sono i veri ospedali di insegnamento: è in corsia che gli studenti ricevono una professionalizzazione di altissima qualità di livello internazionale. Bisogna quindi migliorare il rapporto con le università, mettendo al centro dell'insegnamento medico gli ospedali».
Per tipo di specialità operate su una popolazione prevalentemente anziana e fragile, c'è un tema di durata del ricovero?
«Oggi facciamo interventi delicatissimi, di altissimo livello su pazienti molto complessi.
Gli facciamo superare la criticità della chirurgia e poi quando è da assicurare il risultato ci troviamo in difficoltà: o il paziente rimane nell'ospedale per acuti (dove in realtà dovrebbe rimanere solo pochi giorni) oppure viene trasferito in strutture dove la continuità assistenziale non è allo stesso livello. Il lavoro sulla rete della continuità assistenziale, che è stato impostato, va adesso ottimizzato anche nella fase post ospedaliera».
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