"Costruisco le risate distruggendo le regole"

Dalle parodie ai nomi surreali, l'attore si racconta: "Il lavoro? Occupa l'80 per cento del mio tempo"

"Costruisco le risate distruggendo le regole"

Marcello Macchia nasce a Vasto nel 1978, cresce a Chieti, a 9 anni inizia a sognare di fare il regista e l'attore. Lo diventa, grazie a un nome - Maccio Capatonda - provvidenzialmente inventato, come decine di altri in seguito; e grazie alla Gialappa's e a una serie di parodie esilaranti, dalla serie Mario a Mariottide a The Generi, e poi libri, una vittoria a Lol - Chi ride è fuori e film, a cui ora si aggiunge una nuova pellicola di cui è regista (con Danilo Carlani e Alessio Dogana), sceneggiatore e protagonista: Il migliore dei mondi. Da venerdì 17 novembre su Amazon Prime Video, è la storia di Ennio Storto, uomo molto dipendente dalla tecnologia, che finisce in un mondo parallelo, in cui smartphone, digitale e banda larga non esistono.

Maccio Capatonda, non è che sia proprio il migliore dei mondi...

«Quale dei due?»

Entrambi?

«In effetti il titolo è ambiguo, e del resto è proprio questa la domanda che mi sono posto: il migliore dei mondi è davvero questo, in cui sembra che abbiamo tutto, ma perdiamo l'identità?»

E nell'altro?

«Abbiamo meno, dal punto di vista tecnologico, ma sembra che ci siano più umanità, più empatia, più identità. Però anche in quel mondo la tecnologia viene ricercata, perché sembra indicare una nuova strada: che è ciò che si pensava all'inizio del Duemila, ma poi sono subentrate altre logiche...»

E quindi?

«E quindi questa tecnologia, che ci è esplosa in mano, è una manna, come è stato per me, che ho potuto montare video in digitale e questo mi ha dato grandissima libertà, o una condanna?»

In effetti lei è diventato famoso proprio grazie ai video sul web.

«Sì, certo. Ho iniziato con la Gialappa's su Italia 1 ma poi la grande spinta è arrivata dalla diffusione dei miei video, messi dagli utenti sul web. E, soprattutto, è stato proprio il mondo del digitale a darmi la libertà di fare montaggio e video. Per me, la tecnologia è stata un mezzo per diffondere una comunicazione che io ho dentro da quando ho 9 anni e che non riuscivo a far uscire... Ma, se la usi come mondo, rimani invischiato».

Un mondo povero di tecnologia, il «Maccioverse», il «Micidial Tg»: è un creatore di mondi?

«Sì, è una cosa che amo. Penso che la scintilla sia nata da bambino, quando vidi Ritorno al futuro al cinema e fui scioccato. Credo che il cercare di creare un mondo, e di fare il comico, nasca da un bisogno di evasione: è un voler rinnegare il mondo reale per crearne altri, più controllati; almeno lo sono per me, perché lì ho il controllo di quello che succede, anzi, posso deciderlo».

Era così fin da piccolo?

«Sì. Sono cresciuto con la televisione e il cinema, forse il mondo reale non mi piaceva, mi annoiava... Credo sia il desiderio di ogni artista giocare con la fantasia e creare, e controllare, questi mondi più congeniali, più divertenti e meno dolorosi».

Nel suo umorismo una grossa parte la giocano le parodie.

«Sì, sempre. La parodia nasce dalla voglia di destrutturare i linguaggi: dico la mia su qualcosa, e lo faccio distruggendo, o destrutturando, quello che è già stato fatto. Sono cresciuto attraverso i media e volevo risputare fuori tutto quello che ho visto da spettatore, a modo mio: tradurlo nel mio linguaggio, fatto di giochi di parole, prese in giro alle televendite, ai tg, ai trailer...».

Ha dei modelli?

«Certo, tanti. Da bambino i miei miti erano Verdone, Troisi, Nuti, Benigni, e poi Frassica, Guzzanti, la Gialappa's».

E oggi chi la fa ridere?

«Fra gli stranieri, Ricky Gervais. E poi Frassica, Lundini, e anche chi non vorrebbe far ridere, come i casi umani su TikTok: personaggi al limite del reale, che sembrano partoriti da me, e invece esistono».

In alcuni video è «braccato» dai suoi personaggi: è così?

«In effetti, negli ultimi tre-quattro anni li ho un po' abbandonati, e allora a volte dialogo con loro... In questo film, per esempio, voglio mostrare una maschera di me più naturale, ma i personaggi sono sempre con me: rappresentano una parte che si vuole sfogare in certi ambiti e che, grazie a questo lavoro, lo può fare. Quindi ben venga questa possibilità espressiva fuori dall'ordinario: del resto, se ci entri davvero, il personaggio è un viaggio».

I suoi preferiti?

«Mariottide e Padre Maronno».

E le smorfie, i versi?

«Sono l'espressione della mia volontà di impazzire, di legittimare la parte animalesca dentro di noi, esprimendola in modo comico. Una cosa ancestrale. E sorprendente, perché la comicità è anche sorpresa».

E i trailer dei film horror?

«Da bambino avevo una grande passione per i film horror: dai 14 ai 16 anni ho girato quattro mediometraggi, tutti ispirati a Venerdì 13. Il protagonista, Jason, uccideva tutti i miei amici e alla fine anche me. Vinceva lui».

Che cosa le piace degli horror?

«Permettono di sentire la paura, ma in modo controllato. Ti danno una scossa. Così ho reso omaggio al genere facendo tanti trailer, ma un giorno mi piacerebbe girare un horror, o magari un horror comico».

Nel Migliore dei mondi è Ennio Storto. Come nascono i suoi nomi surreali, dai fratelli Peluria a Salvo Errori a Oscar Carogna?

«Quella è una mia cifra stilistica, da sempre. Una sorta di parte istintiva della mia comicità. Mi affeziono al fonema, oltre che al significato: mi attacco al suono che la voce emette e mi fa molto ridere».

Mi inventa un nome?

«Rublo Mesòffocos. È un attore russo-greco che recita in modo un po' affannato...»

La cosa più difficile del suo lavoro?

«Riuscire a trovare l'idea giusta al momento giusto. È la sfida più bella, ma sei anche davanti alla possibilità che non avvenga: a volte sei inerme, bloccato. È brutta come situazione».

Come ne esce?

«Ne esci un po' aiutato dal dialogo coi colleghi, oppure togliendoti dalla situazione e facendo tutt'altro, distraendoti, magari andando a divertirti».

Che cosa la fa ridere?

«Il grottesco, il surreale. Quando vengono sovvertite le regole della realtà, scambiati i ruoli. È un andare contro le norme, anche linguistiche, lessicali, culturali. Lì scatta la risata».

Quanto lavora per questo?

«Tanto. Il lavoro occupa l'80 per cento della mia vita».

Maccio Capatonda, in lei c'è una punta di malinconia?

«Un po' di pessimismo, sì. In questo film, ma anche nella vita, sono abbastanza pessimista: ho la sensazione che manderemo tutto a puttane, che il genere umano si autodistruggerà per il suo non accontentarsi mai, che non abbiamo speranza. Ho un po' questa paura, anche se in questo periodo sono più tranquillo».

E per quale motivo?

«Forse ho accettato il nostro destino».

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica