"Nel territorio la chiave per vincere il gran premio della competitività"

Il vicepresidente esecutivo di Dellorto: "La nostra anima è in Brianza La mobilità green? Sono d'accordo con la Confindustria di Orsini"

"Nel territorio la chiave per vincere il gran premio della competitività"

Dal 1933 in Brianza c'è una realtà Made in Italy che nel corso della sua storia ha saputo diventare riferimento nel mondo moto e automotive e per migliaia di appassionati di motori, forte anche di oltre 500 titoli iridati. Nota ai più per i suoi carburatori, la Dellorto Spa di Cabiate (Como) ha vissuto transizioni epocali e tre passaggi generazionali. Ha ampliato negli anni la gamma di prodotti, studiando e realizzando corpi farfallati, sistemi a iniezione, centraline elettroniche e progetti sull'elettrificazione. I cambiamenti però non ne hanno scalfito lo spirito competitivo ereditato dalla tradizione racing, unitamente al forte radicamento col territorio. Coadiuvato da un board ancora fortemente a trazione familiare, dal 2008 alla sua guida c'è il vice presidente esecutivo Andrea Dell'Orto. Ingegnere, classe 1969 e fermo sostenitore del fatto che le complesse sfide della competitività non possano prescindere dall'importanza dei territorio. Che si tratti di Brianza o altro.

Ingegner Dell'Orto, in questo 2024 la vostra presenza ininterrotta sul territorio come realtà produttiva compie novantuno anni. Quanto è indissolubile il legame tra voi e la Brianza?

«Semplicemente indissolubile. Dellorto Spa nasce nel 1933 a Seregno, in Monza e Brianza e poi più recentemente ha spostato la sua sede operativa di pochi chilometri a Cabiate che è in un'altra provincia. Ma il territorio e lo spirito che lo contraddistinguono è quello. Lo stesso di mio nonno e dei suoi fratelli quando la fondarono. Uno dei nostri segreti ritengo proprio sia l'aver saputo mantenere insieme tutte le fasi di quel che facciamo. Dalla progettazione, alla costruzione. Dallo sviluppo, all'amministrazione e alla promozione. Un'idea che nasce a Cabiate, lì si sviluppa e si crea, per poi aprirsi al mondo».

Ieri come oggi ancora a guida totalmente familiare, quasi che per voi sia un valore aggiunto.

«È così. Anche perché a livello generale è noto quanto i passaggi generazionali non siano mai semplici. In particolar modo la terza generazione a livello di aziende famigliari si dice sia quella che tendenzialmente rappresenti un po' il punto più critico. O meglio, di quanto in alcuni casi ponga l'azienda a un vero e proprio bivio».

Lo è stato anche per voi?

«Direi di no. Fortunatamente. È stato più un processo quasi naturale, ma non semplice e durato diversi anni. Prima di ricoprire gli attuali ruoli nel board aziendale io, mio fratello Luca e nostro cugino Davide abbiamo maturato esperienza a vari livelli. Anche il passaggio in linea di produzione è stata parte integrante della nostra formazione. Così come ancora prima, seppure indirettamente, il tempo passato in gioventù nel perimetro dell'azienda. Ad oggi, io come vicepresidente esecutivo, Luca in veste di amministratore delegato e Davide come Chief Technical Officer componiamo e completiamo quello che è un management aziendale famigliare, totalmente Dell'Orto, fortemente voluto dal nostro presidente, mio padre Giuseppe».

Passaggio avvenuto in che anno?

«Nel 2008. In un periodo oltretutto non facile dal punto di vista della congiuntura economica, mio padre Giuseppe, classe 1940 e ancora oggi attivamente presente in Dellorto, ritenne che i tempi fossero maturi per farlo».

Ha avuto ragione?

«Non spetta forse a noi dirlo. Ma credo di sì. E i risultati conseguiti in questi anni ce lo dimostrano. Oltre ad essere conoscitore profondo dell'azienda, il nostro presidente, è uno che di transizioni e cambiamenti nel corso della sua storia ne ha visti e gestiti diversi, sempre al meglio. La lungimiranza è sempre stata una sua innegabile dote».

In anni dove i temi della transizione e il saper intercettare i cambiamenti sono centrali, dalle sue parole sembra di capire che è stato un bel vantaggio per l'impresa.

«Senza dubbio. Ma nel nostro caso non parlerei solo di cambiamento. Per decenni siamo stati identificati, e ancora spesso è così, per un solo prodotto: il carburatore. E ne siamo orgogliosi. È un prodotto che rivendichiamo con forza e che sentiamo come il cuore del nostro business. Ancora oggi ne è parte fondamentale. Ma non più la sola. Siamo nati come realtà puramente meccanica, evoluta poi nella meccatronica e oggi fortemente orientata sull'elettronica. Dal 2006 abbiamo avviato un importante percorso di internazionalizzazione. E dal 2019 abbiamo dato vita a un progetto, E-Power, che si traduce in una gamma completa di powertrain elettrici per la mobilità urbana per veicoli elettrici di piccola taglia. Passaggi non semplici e non scontati, in quella che è la nostra evoluzione aziendale».

Quindi siete per l'elettrico già nel prossimo futuro?

«Per quanto riguarda i piccoli mezzi legati alla mobilità urbana sicuramente è ad oggi un'opzione molto valida e sostenibile. Ma per quanto riguarda il settore automotive credo vi siano più alternative».

Però l'Europa con gli stop ai mezzi a benzina e diesel del 2035 ha tracciato la via dell'elettrico per tutto.

«Forse troppo frettolosamente e non vagliando tutte le opzioni e le dinamiche in campo».

Che cosa critica di più?

«Nell'automotive in particolare credo che un approccio orientato alla neutralità tecnologica sarebbe stato migliore per diversi fattori. Siamo tutti d'accordo nel puntare a ridurre le emissioni dei mezzi circolanti, non è questo in discussione. Ma il come e il quando arrivarci credo meritino ancora un'analisi attenta. Così come andrebbe fatto un approfondimento sui processi legati alla transizione energetica e di come stanno impattando sulle imprese».

Presumo male...

«Di certo non bene. Parlo ovviamente per quel che conosco direttamente e per quello che anche il confronto con imprenditori del settore però mi confermano. In Brianza, in Lombardia e su tutto il territorio italiano ci sono certamente delle eccellenze che stanno facendo cose importanti e per le quali la riconversione, per quanto un processo mai banale, sta procedendo bene. Però per tanti della filiera automotive non è semplice. Parliamo di investimenti importanti oltre a tempi tecnici non brevi per realizzarli. C'è tutto un mondo legato all'indotto che rischia di andare in difficoltà».

A cosa pensa in particolare?

«Le faccio un esempio, seppur semplificando. Rispetto a un motore endotermico, un powertrain elettrico è composto da sole tre famiglie di componenti. E su quei componenti ad oggi, almeno per un 50% del loro valore, l'Europa è tagliata fuori. Con Asia e in particolare la Cina leader nella produzione in un componente chiave, le batterie. Se poi come è ipotizzabile per le rimanenti componentistiche le case costruttrici di auto procederanno nel prodursele in autonomia, i fornitori della filiera rischieranno di rimanere per buona parte esclusi».

Quindi per lei, come dichiarato dal presidente di Confindustria, lo stop al motore endotermico nel 2035 va rivisto?

«Me l'auguro. Concordo con la posizione del presidente Orsini e in particolare sul fatto che transizione e decarbonizzazione siano un tema competitivo. Così come sul fatto che dall'Europa serve che arrivino politiche a sostegno dell'industria. Le filiere sono l'anima dei territori e trovo impensabile un'economia italiana ed europea che non tengano conto di queste realtà. Valore aggiunto strategico per rimanere competitivi sui mercati».

Sintetizzando, ripartire dai territori per rimanere competitivi? E' questa la vostra formula?

«È una chiave di lettura. Forse non la sola. Ma la nostra economia ha nella sua storia e cultura d'impresa l'esaltazione delle tante realtà territoriali. Che come tanti esempi ci dimostrano, quando poi fanno sistema o sono valorizzate creano poli e filiere d' eccellenza, in diversi settori. Perdere o comunque non considerare realtà di questo tipo e quello che rappresentano non è a mio avviso pensabile. Valorizzarle e aiutarle nelle sfide poste dall'attuale contesto socio economico è doveroso. In Italia e in Europa».

Suona come un inno al Made in Italy.

«Lo è. Per il Made in Brianza nel mio caso e in generale per tutto quanto di buono si fa e produce in tante altre realtà d'Italia. Essere imprenditori credo sia oggi più che mai una scelta coraggiosa quanto sfidante. È una responsabilità nei confronti di chi lavora con te e del territorio del quale si fa parte e che in qualche modo si rappresenta. Esaltarlo credo sia il minimo che si possa fare per guardare al futuro con il giusto approccio. Costruendo e lasciando anche delle prospettive alle nuove generazioni.

Per non smarrire una parte importante della nostra identità produttiva ed imprenditoriale e quanto di buono costruito anche da chi ci ha preceduto. Chi fa impresa lo sa bene e i presupposti e la volontà per ripartire da questo sono certo ci siano».

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