La scena che apre La città della vittoria, l'ultimo romanzo di Salman Rushdie - in uscita oggi per Mondadori in contemporanea mondiale con Stati uniti e Gran Bretagna (traduzione di Stefano Mogni e Sara Puggioni, pagg. 360, euro 22) è struggente e grandiosa: in un minuscolo principato, appena sconfitto in una insignificante battaglia senza nome, le donne rimaste vedove attraversano il fiume su piccole imbarcazioni e accendono un grande falò. Poi con inquietante solennità una alla volta, lentamente, si avviano al suicidio di massa, incamminandosi tra le fiamme. Tra loro c'è la madre di Pampa Kampana: la bimba ha nove anni e assiste piangendo in silenzio all'avviarsi di sua madre, senza un addio, verso la morte. Il dettaglio macabro e magistrale insieme che Rushdie aggiunge nel descrivere la scena sintonizza da subito il lettore sulla frequenza del romanzo: l'epica tragica. È impossibile, spiega la voce narrante, «Mascherare l'intensità cannibale delle donne cucinate vive... Pampa Kampana non mangiò mai più carne, e non riusciva a resistere in nessuna cucina dove veniva preparata. Tutti quei piatti trasudavano il ricordo di sua madre, e quando altre persone mangiavano animali morti, Pampa Kampana era costretta a distogliere lo sguardo».
Salman Rushdie, nato a Mumbai nel 1947, da mezzo secolo uno degli scrittori più celebri al mondo, autore di 14 romanzi, al più opere fantastiche che uniscono ricostruzioni storiche e politiche con elementi di realismo magico - come è anche il caso di La città della vittoria - riesce anche nel 15° titolo nell'intento, fin dalle prime pagine: farci assistere alla battaglia brutale tra l'ineluttabilità del destino e la misteriosa energia poetica del sentire umano. Poco conta che a vincere i singoli scontri siano le forze oscure: poesia e letteratura fanno andare il nostro sguardo oltre la morte. Inevitabile il paragone con la vita stessa di Rushdie, sconvolta da un singolo volume, I versi satanici, nemmeno il migliore che abbia scritto. «Era come se l'universo in persona le stesse mandando un messaggio: apri le orecchie, respira, e impara», è il commento del narratore alla sorte di Pampa Kampana. E la bimba impara e applica: morirà all'età di 247 anni, «poetessa cieca, artefice di miracoli e profetessa» e l'ultimo giorno della sua vita, terminato il suo immenso poema narrativo sull'Impero Bisnaga, nato dalla città-sogno cui un forestiero ha dato il nome e divenuto realtà grazie alle gesta magiche di Pampa, lo seppellisce, «chiuso dentro un vaso di terracotta sigillato con la cera, come messaggio per il futuro».
Come nella migliore tradizione del romanzo epico, in un breve prologo in cui si rivolge ai suoi venticinque lettori, il narratore svela che La città della vittoria non è che la sua versione del capolavoro poetico trovato in quel vaso e chiamato «Jayaparajaya» (che significa «Vittoria e sconfitta»), Un poema scritto in sanscrito, costituito di ventiquattromila versi, e contenente segreti celati per quattro secoli e mezzo. Rushdie ci fa godere di questi segreti, che, come spesso accade nei suoi romanzi, sono viscerali, divertenti, spesso erotici e a tratti estatici, pieni di quella gioia di stare al mondo che ha fatto della nostra una razza di semidei. Come lo stesso Rushdie, che sembra ogni volta rinascere dalle afflizioni provocategli dal fondamentalismo. E come Pampa Kampana che diviene oracolo della dea sua omonima, con una missione possibile: in un mondo patriarcale, riconsegnare il governo alle donne. «Tu lotterai per assicurarti che nessun'altra donna sia mai più bruciata in questo modo, e che gli uomini inizino a considerare le donne con occhi nuovi, e vivrai abbastanza a lungo da assistere sia al tuo successo sia al tuo fallimento»: per farlo, la dea le conferisce poteri, superpoteri e tempo. Tempo per intessere da guerriera la storia di una città e, da amante, di sedurre un re e un forestiero e frequentarne il letto nello stesso tempo, senza che loro in fondo se la prendano più di tanto.
Autore, fra l'altro, di La vergogna, I figli della mezzanotte, L'ultimo sospiro del Moro, Shalimar il clown, Joseph Anton, del reportage sul Nicaragua Il sorriso del giaguaro, dei volumi di saggi Patrie immaginarie e Superate questa linea, tutti editi in Italia da Mondadori, Rushdie viene però spesso menzionato solo per la condanna a morte promulgata il giorno di San Valentino di 33 anni fa dall'allora leader iraniano ayatollah Khomeini a causa del romanzo I versi satanici, e mai cancellata. Quella fatwa e una serie di attacchi fondamentalisti sono da tempo la sua maledizione e il volano della fama globale, come celebrity cui tenere un faro sempre puntato addosso, casomai la minaccia s'avverasse.
L'ultimo di questi attacchi è il tragico accoltellamento di cui è stato vittima l'estate appena trascorsa, poco prima del discorso alla Chautauqua Institution nello stato di New York: ha perso un occhio e l'uso di una mano, non comparirà in pubblico a promuovere il libro, come ha annunciato il suo agente Andrew Wylie , ma «È ancora il Salman di prima», dicono i suoi amici scrittori. E con questo 15° romanzo sembra voler di nuovo dimostrare al mondo che la sua missione è quella del «tessitore di trame» - come si definisce nella prima pagina di La città della vittoria, non del simbolo politico.
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