Nella letteratura abita il potere della preghiera

Romanzi e poesie ci conducono a incontrare l'Altro da noi (divino e non), proprio come le invocazioni

Nella letteratura abita il potere della preghiera
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«O Signore inventato dai poeti/ per comodo d'invocazione,/ so bene che non v'è colpa/ fuori che in me stesso:/ neppure tu, se esistessi,/ saresti responsabile (...)» scrive Tommaso Landolfi nella sua meravigliosa (e dimenticata) raccolta Il tradimento.

Nella sua straziata incredulità, lo scrittore di Pico Farnese indirizza da subito l'attenzione del lettore verso un'espressione che può apparire sprezzante a un primo sguardo: «per comodo d'invocazione». Ma queste parole velano una duplice, impressionante verità: anzitutto, credenti o non, i poeti non possono smettere di invocare, perché questo è il loro compito maledetto, che porteranno a termine, costi quel che costi; in secondo luogo, c'è qualcosa verso cui è più facile, più comodo indirizzare l'invocazione: una direzione (si direbbe) naturale. Invocare Dio è più facile.

Ho citato questi versi per consigliare il bel libretto di Alessandro Zaccuri, Preghiera e letteratura (San Paolo, pagg. 160, euro 14). Non un'opera sistematica, che per un tema simile avrebbe richiesto molte centinaia di pagine e molti anni di lavoro certosino, bensì un'introduzione, elegante e avvincente, al grande tema. Ed è ben noto che le introduzioni sono importanti perché ad esse spetta il compito di porre le domande giuste.

L'indagine di Zaccuri si svolge lungo due linee interrogative complementari ma molto differenti. La più semplice riguarda, va da sé, la capacità della letteratura di documentare, attraverso i suoi contenuti, il peso e l'importanza della preghiera nella vita umana. E non c'è da sorprendersi se nel corso dei secoli, dall'antichità a oggi, la presenza dell'uomo orante si sia diradata fino a farsi, in determinate circostanze, del tutto assente.

Più importante è però l'altra linea, che parte da una domanda radicale, tale da comprendere in qualche modo tutte le epoche. La domanda è: la letteratura è essa stessa, in qualche modo, una preghiera? I versi di Landolfi citati all'inizio sembrano concludere per il sì, come anche le parole di W. H. Auden, citate da Zaccuri: «(...) esiste una sola cosa che ogni poesia deve fare: lodare tutto ciò che può, per il fatto che esiste e che accade». E lodare è pregare.

Con prudenza e intelligenza, Zaccuri evita però le secche di un discorso che può portare a facili proclami su un versante come sull'altro, a seconda che il lettore abbia o meno un'opzione di tipo metafisico: il rischio di trovare dentro un libro quello che ci avevamo messo dentro noi è sempre presente. Non dimentichiamo Flannery O'Connor, che definì (con qualche ragione) la letteratura «territorio del diavolo».

Per superare l'impasse, Zaccuri si affida all'autorità di George Steiner, il grande critico inglese che, fin dalla prima pagina, fa da nume tutelare con la sua opera più celebre: Vere Presenze.

Se il testo letterario non è soltanto un discorso ma una vera presenza (come la presenza di Cristo nell'eucaristia), e quindi l'uomo, lo scrittore vi è presente sì ma «in toto», ossia un passo al di là della sua esistenza quotidiana (che, viceversa, non è quasi mai «in toto»), allora la letteratura può costituire un passo verso la preghiera. Può farlo lodando, invocando, gridando, protestando, perfino bestemmiando (Pasolini), ma è pur sempre un rapporto con l'Altro: l'Altro che è Dio, ma prima di tutto l'Altro che è la parte oscura di noi, l'Altro che ciascuno di noi è per sé stesso. Ecco cosa ci permette di affrontare il diavolo: la necessità di percorrere quel tratto di strada. E qui, l'invocazione si rende più che mai necessaria.

Alcune citazioni, qui, sono illuminanti, come certi slanci di Hemingway o come il lungo capitolo dedicato a Dante.

Termino con S. Tommaso d'Aquino che, più prosaicamente, definì la preghiera «richiesta a Dio di cose decenti». Cosa è decente? La letteratura ci insegna che è decente tutto ciò che è, per così dire, «a tempo e luogo».

E penso a Roland Barthes, ateo, che va a trovare l'amatissima madre al cimitero, e soffermatosi davanti alla sua tomba si domanda cos'altro dovrebbe fare, una volta lì, se non pregare - esattamente ciò che lui non sa fare.

Questa immagine mi è molto cara perché rappresenta per me la natura della letteratura: un cosa ci faccio qui? che forse non prega, ma sospetta che, in fondo, noi ci eravamo mossi verso questo punto solo per pregare.

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