È una regola di buona creanza se non di civiltà: quando muore il tuo nemico abbassi la picca della guerra, ti togli il cappello e rendi omaggio: parce sepulto . Ma quando il morto, diciamo l’illustre morto, è un giornalista come Giorgio Bocca o un politico come Bettino Craxi, una figura comunque pubblica che ha molto diviso e che è vissuto nella e della divisione politica (che è il bene della democrazia: democrazia uguale divisione, non omologazione) allora si tratta di affidarsi alla misura con cui si mantiene il punto sulle divisioni, sulle differenze, e non si scivola nella melassa viscida della commemorazione buona per tutti.
Quel che è accaduto con la morte dell’ex presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, è melassa viscida. Si dirà: ma è melassa istituzionale. Può darsi, ma non è così che si dovrebbe rendere omaggio a un uomo di parte, secondo chi ha a cuore per prima cosa libertà e rispetto delle diversità. Scalfaro assunse posizioni molto criticabili, si trovò al centro di vicende poco chiare da cui tentò di evadere urlando «non ci sto».
Dunque, chi lo loda a tutto tondo, senza eccezioni, senza obiezioni, vuol dire che lo approvò e ancora lo approva. Coloro che furono in conflitto con lui, farebbero invece meglio a tacere, come ha fatto ad esempio Berlusconi che di Scalfaro è stato un arcinemico perché trattato (e tradito) da lui nel 1994 come arcinemico.
Giorgio Napolitano come presidente non poteva far altro che tessere lodi istituzionali a un suo predecessore, ma a noi sembra che quando queste lodi si spingono avventurosamente fino all’elogio alla coerenza - «fu sempre coerente» - allora viene da chiedere: e Lei è d’accordo con l’elogio della coerenza come valore? Troverebbe lodevole, ad esempio, che Lei in futuro fosse lodato per la coerenza incrollabile fra quel che disse e fece nel 1956 apprezzando il macello degli studenti e degli operai ungheresi da parte degli amici sovietici? Io non credo. Io penso, al contrario, che il presidente Napolitano abbia avuto modo di diventare lodevolmente incoerente con il dirigente togliattiano del Pci che fu, perché in molti casi l’incoerenza è una virtù e la coerenza, al contrario, un vizio.
E poi: perché il presidente della Camera e ora leader di Fli, si è abbandonato a tanto eccessivo slancio oltrepassando il sobrio dovere della compunzione istituzionale? Dov’era Fini quando Scalfaro attaccava a sangue il presidente della Repubblica Francesco Cossiga, lo stesso che sdoganò Fini e l’Msi? Non ricorda la guerra aperta che l’allora presidente della Camera ( dunque predecessore di Fini) fece a Cossiga? Quella scenata imbarazzante in cui Scalfaro gridò con voce stentorea «viva il Parlamento» suggerendo implicitamente che il capo dello Stato stesse attentando alla libertà del Parlamento e delle istituzioni democratiche?
Intendiamoci: Scalfaro fece benissimo a fare quel che fece, se era quel che lui intendeva per rispetto delle istituzioni, dei ruoli e del ruolo della politica. E chi era con lui, dalla sua parte - prima contro Cossiga, poi contro Berlusconi fin dall’inizio e a prescindere - fa bene a rimpiangerlo. A Repubblica , faccio per dire, le lacrime scorreranno a rivoli, se non a fiumi, perché Scalfaro è stato un loro eroe.
Ma, basta leggere l’intervista a Giuliano Urbani al Corriere della sera di ieri, o i ricordi di tutti quelli che parteciparono e vissero i primi anni Novanta, l’ex presidente appena defunto fu un arbitro che giocava in campo praticando la doppia verità, agendo in modo diverso da quel che diceva di voler fare quando guardava in faccia i suoi interlocutori.
Questo, almeno, durante la tremenda crisi scatenata dalla pubblicazione sul primo giornale italiano dell’avviso di garanzia a Berlusconi per fatti che poi sono stati dichiarati insussistenti. Tutti si chiedono se Scalfaro sapesse o non sapesse, se accompagnasse o no, se tramasse o no. È lecito parlarne? Forse è meglio attendere le esequie, ma allora nel frattempo sarebbe prudente mantenersi ai doveri stretti delle frasi fatte e brevi, senza andare oltre, senza sprofondare nell’oratoria conformista funebre.
Quando sedevamo nello stesso Senato, Scalfaro non fece che prender parte alla divisione e alla rissa, fu uomo di parte sempre, indossava una maglietta da giocatore e giocava con vigore partigiano, sempre pensando alla propria fazione e mai all’unità.
Questo atteggiamento lo rendeva simpatico a un liberale come me che apprezza tutto ciò che in democrazia separa, va col dito nell’occhio e punta alla vittoria non curando l’estetica del gioco. Perché la politica è lacrime, sangue e merda, non un esercizio di estetica.
A me quell’uomo era simpatico e non tralasciavo di dirglielo, sicché avevamo un rapporto personale non intimo, ma da onesti nemici che hanno il diritto di detestarsi rispettandosi e che possono salutarsi davanti alla porta dell’ascensore con sincera cordialità e un onesto sorriso sulla bocca.
Ma la sbobba che l’Italia ha dovuto mandare giù sui giornali e dai telegiornali in seguito all’annuncio della scomparsa di Scalfaro, che il suo dio l’abbia in gloria, è stata la solita italianata conformista, pretesca anche quando è di finta razza laica, eccessiva nel collo torto, nell’ipocrisia santificante, specie per un uomo che ha lasciato dietro di sé una scia di domande senza risposta, di rancori profondi non tutti ingiustificati e di giudizi severi, negativi e sanamente ostili che lo scomparso non ha fatto nulla per evitare.
E questo è l’elogio funebre che noi ci sentiamo di fare: fu un grande nemico della speranza liberale, e dunque giù il cappello davanti a un grande nemico che si è spento.
Ma l’elogio della coerenza in nome dell’intero popolo da parte di chi in vari gradini istituzionali rappresenta l’intero popolo, per favore no.
class="abody">Siamo ancora affezionati all’elogio della follia e non si può apprezzare insieme il conformismo e la follia generatrice di confronto e di scontro.
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