Girare un film su un doloroso fatto di cronaca, il massacro del Circeo, che ha avuto come vittime anche minorenni e vederselo vietare ai minori di 18 anni è una forma di censura? Lo chiediamo a Stefano Mordini, regista di La scuola cattolica, ora in sala.
Mordini, Lei è l'unico regista italiano, con un film distribuito su tutto il territorio nazionale, ad avere avuto il fatidico V.M.18 negli ultimi quindici anni?
«Trovo assurdo che oggi si vieti ai ragazzi di vedere, attraverso un libero mezzo di espressione, quello che due ragazze come loro, anni fa, hanno subito. È un atto censorio priva una generazione di una presa di coscienza che potrebbe essere utile per difendersi da quella violenza».
Nella prima motivazione i commissari entrano nei contenuti dicendo che «presenta una narrazione filmica che ha come suo punto centrale la sostanziale equiparazione della vittima e del carnefice».
«Il film racconta l'esatto contrario e oltretutto ci sono degli errori formali che mi hanno spaventato per la leggerezza in un documento che diventa pubblico».
Mentre nella motivazione d'appello ci si limita a sottolineare come «un minore non abbia gli strumenti per elaborare e contestualizzare la crudezza di alcune scene».
«Su questo almeno mi posso confrontare. Oltretutto se fosse una critica cinematografica sarebbe bella perché parla della forza delle immagini, che ci deve essere, nel racconto di un fatto di cronaca come quello, anche se sono stato sempre molto attento a tenere la violenza finale fuori campo».
Il divieto V.M.18 crea anche un danno economico sia in sala sia in futuro perché La scuola cattolica non può essere trasmesso nelle tv generaliste.
«In effetti è un'avventura economica finanziare storie scomode come questa del Circeo. Questo divieto fa sì che continui la reticenza italiana nel rileggere alcuni passaggi che rendono paradigmatico il comportamento dell'uomo con la donna. Indubbiamente nel mio film ci sono elementi che disturbano, è una ferita aperta che produce reazioni di censura».
Oggi si parla molto di cancel culture. Un'altra forma di censura?
«Se guardiamo al cinema degli anni '70, poco dopo il periodo del massacro del Circeo, in sala c'era La banda del gobbo con Tomas Milian. Lì la violenza sulle donne è esplicita, vengono mostrate a seno nudo, picchiate, con l'uomo/il marito che veniva umiliato. Oggi sarebbe inimmaginabile ma così, anche vedendo cose scomode, capisci il contesto, la cultura di un popolo e un momento storico. Io non cancellerei nulla. Soprattutto perché è il segno di un percorso. Quella rappresentazione ci sta dicendo che la società si è evoluta».
C'è chi propone di mettere dei cartelli a inizio film per contestualizzare
«Farei un po' attenzione, è complesso trovare oggi un codice comune. Con lo streaming e con le piattaforme i nostri confini intellettuali sono soprannazionali. Le culture e le sensibilità sono diverse. E poi bisogna capire che società abbiamo di fronte, i sedicenni di oggi non sono quelli di prima. E se il mio film apre un dibattito anche su questo sono felice. Però sa alla fine che penso?».
No, mi dica.
«Che se esiste tutta questa attenzione e una censura che entra in questo modo a gamba tesa su un film, allora vuol dire che il cinema è ancora un grandissimo mezzo di espressione».
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