Nicole Krauss, la collezionista di storie

Arriva in Italia la scrittrice di New York che non si sente parte degli scrittori di moda nella Grande Mela. "Mi sembra soltanto un’invenzione europea che sotto Miss Liberty esista questa cricca di intellettuali"

Nicole Krauss, la collezionista di storie

Non chiedete a Nicole Krauss di suo marito. Non è Jonathan Safran Foer il protagonista delle sue storie. David Foster Wallace parlava di quel gruppo di «grossi maschi bianchi», quarantenni o giù di lì, alti almeno un metro e ottanta, quasi tutti con gli occhiali, che stanno cercando di raccontare l’America. Wallace faceva i nomi di Jonathan Franzen, Donald Antrim, Jeffrey Eugenides, Rick Moody, Richard Powers, William Vollman. Ricordava che CivilWarLand in Bad Decline di George Saunders è un gran bel libro. Parlava anche di A.M. Homes: «Le cose più lunghe magari non sono perfette, ma ogni due o tre pagine ti colpisce allo stomaco e ti fa piegare in due».
Nicole non è alta un metro e ottanta. Non è un maschio. Non porta gli occhiali. È vero che qualche volta le è capitato di partecipare ai readings del ristorante newyorchese Russian Samovar sulla Quattordicesima, ma non si sente un’esemplare della razza «scrittori di moda a New York».

«Càpita tra colleghi di essere amici. Ci si incontra per la strada a Brooklyn come capita di vedersi a Roma. Ma mi sembra un’invenzione europea che a New York esista questa sorta di camarilla, di cricca di intellettuali, di scrittori. Saremo anche degli animali come diceva Wallace, ma siamo animali solitari, che scavano gallerie sotto terra e non fanno clan, ma tutt’al più si scambiano sguardi».

È solo un’intuizione, ma vederla qui, nella hall di questo albergo romano, a un angolo di distanza dal Pantheon, con un sole caldo che frange i vetri delle finestre, il suo sguardo dolce, di mamma, giovane, che si guarda intorno, i capelli neri per nulla aggressivi, ti fa pensare subito a una cosa: questa donna non ha paura di restare sola. Nicole Krauss racconta che in metropolitana si ritrova ad ascoltare i discorsi delle persone, le scruta, si interroga sulla loro vita, si fa domande e costruisce storie. «Mi succede di fissare le persone. Di solito sono timida, ma in quei momenti perdo ogni senso del pudore. Una volta una ragazzina disse ad alta voce ai genitori: “ma che vuole quella?”. Guardo, mi fisso, posso guardare le gambe, le borse, le scarpe, e comincio a srotolare la mia storia. A volte ricorro a dei trucchetti. Mi impongo di osservare soltanto i piedi e poi mi do solo un istante per dare uno sguardo in alto, alla figura. L’unico motivo per cui lo faccio è che resto affascinata, stregata dalle vite degli altri».

Nicole vive circondata da una comunità di personaggi immaginari, sono quelli di cui ha scritto la storia, alcuni mai incontrati, altri sono il suo passato, la sua memoria atavica, come i suoi nonni, i protagonisti del suo secondo romanzo, La storia dell’amore, qualcuno in bilico come in Uomo sulla soglia, altri lasciati liberi di consumare il proprio destino. Quando era piccola per anni giocava a «ufficio» e organizzava viaggi per turisti immaginari. Viveva in una grande casa sulla collina di Long Island, nel cuore di un quartiere ebraico, dove la memoria non ristagna, ma arriva, si nasconde, si perde, ritorna, semplicemente scorre. E prima o poi ti ci ritrovi a fare i conti. Alma Singer, la narratrice quattordicenne di La storia dell’amore, si appunta in maniera ossessiva liste e colleziona tutto, per prepararsi a qualsiasi evento

Nicole si è laureata a Oxford con una tesi su Joseph Cornell, scultore, pioniere dell’assemblaggio e collezionista. Nicole Krauss colleziona storie. Le ultime quattro sono quelle narrate in La grande casa (Guanda, pagg. 334, euro 18).
Memoria e mappa. Perdita e ricerca. Nei suoi romanzi gli oggetti sono «passaporte», incroci, corridoi, scambi di binari. Può capitare che sia un manoscritto perduto o, come nel suo ultimo romanzo, una massiccia scrivania con diciannove cassetti dove ci sono memorie e segreti dei quattro personaggi della storia. Nicole non sapeva dove quei cassetti la stavano portando. Il 19 non ha un significato. Sono solo il posto dove i suoi personaggi depositano le loro cose. «Ma la scrivania per me è solo uno dei tanti snodi, cardini, tiranti che tengono insieme le storie. È importante ciò che la scrivania rappresenta per i miei personaggi. Per Nadia la sua scomparsa le permette finalmente di smetterla di dubitare di se stessa. Per il professore è l’ansia.

È non conoscere il segreto di sua moglie. È per una figlia è l’atto di ribellione al padre». Questo mobile pesante che passa di mano in mano diventa così qualcosa di precario, indefinito, qualcosa quasi di immateriale che diventa il custode di paure e sentimenti.
Le storie della Krauss affondano nel passato, toccano l’Olocausto, qualcuno direbbe che si muovono sullo stesso spazio ideale che segue il marito, quel Jonathan Safran Foer autore di Ogni cosa è illuminata, ma Nicole non usa l’ironia, bensì la leggerezza, l’incertezza, la tentazione di restare in bilico che è, per lei, la traccia del suo ebraismo. È come se questo secolo condannato alla ricerca di una casa, di un’identità, trovasse il suo senso nel vagare della diaspora.

«La grande casa viene da una delle più belle vicende della storia ebraica, quella che narra come gli ebrei, guidati da Yochanan Ben Zakkai, immaginarono se stessi dopo la caduta di Gerusalemme, una reinvenzione radicale che sublimava il concetto di perdita. L’unico modo per sopravvivere nella diaspora».

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