Il Nobel giapponese dal "sorriso diabolico" che non temeva di essere impopolare

Il pacifismo, Hiroshima, il figlio autistico: non si risparmiò mai, nella vita e nella scrittura

Il Nobel giapponese dal "sorriso diabolico" che non temeva di essere impopolare

Prendeva tutto sul serio, tranne se stesso. Così in una intervista di alcuni anni fa la Paris Review descriveva la contraddittoria e affascinante personalità letteraria e umana di Kenzaburo Oe, il Nobel per la letteratura 1994 scomparso il 3 marzo: «Kenzaburo Oe è morto di vecchiaia nelle prime ore del 3 marzo», ha dichiarato ieri l'editore giapponese Kodansha, aggiungendo che i funerali sono già stati celebrati dalla famiglia.

Era noto nel suo Paese per essere un attivista e in tutto il mondo per essere un progressista che non temeva né il conflitto né l'impopolarità, anticonvenzionale sia nel contenuto sia nella forma della sua prosa. Aveva un'opinione su tutto, dalle vittime dell'atomica di Hiroshima alle lotte della gente di Okinawa, dalle sfide cui sono sottoposti i disabili alla disciplina della scuola dell'obbligo, ma poi indossava una t-shirt sportiva e un gran sorriso («Un sorriso diabolico», secondo Henry Kissinger) ed era cordiale con tutti. Forse la sua più grande dote letteraria è stata unire grandezza ideale a miseria quotidiana, tensione nell'assoluto e umiltà nella perdita: «Il lavoro dello scrittore è quello del clown, un clown che parla anche del dolore». Sono le parole di un uomo nato in un piccolo villaggio dell'isola di Shikoku nel 1935, Ose, ed allevato per credere che l'imperatore fosse un dio, ma che fin dall'inizio oppone ad una visione conformista e totalizzante degli eventi una prospettiva critica oggettiva al punto da risultare impietosa.

Pubblicato in Italia da Garzanti (tra i libri tradotti Il salto mortale, La vergine eterna, L'eco del paradiso, La foresta d'acqua, Il bambino scambiato) si espone in prima persona, Kenzaburo Oe, in un modo autobiografico che oggi chiameremmo autofiction, fin dagli anni Sessanta, quando decide di trasformare in scrittura uno dei più grandi drammi della sua vita, il rapporto con il figlio Hikari, autistico: questa paternità straordinaria per amore e tenacia Hikari, stimatissimo compositore, ha vissuto sempre con lui a Tokyo, nello stesso quartiere in cui avevano abitato Akira Kurosawa e Toshiro Mifune - è esplorata in modo teso, ossessivo e poetico in Un'esperienza personale (Garzanti, 1964), Insegnaci a superare la nostra pazzia (Garzanti, 1969) e Il verbale di un pinch runner (1976), dove la figura del ragazzino con ritardo mentale, innocente e vulnerabile, si radica nella vitalità naturale insopprimibile, volontà cosmica così potente da diventare l'unica salvezza possibile.

Di pari importanza per lui il tema pacifista, che gli costò più volte la stigmatizzazione delle istituzioni politiche, ma a cui rimase fedele: gli esperimenti atomici e le armi nucleari vengono affrontati in brevi racconti e in molti saggi, il più famoso dei quali è Note su Hiroshima (Garzanti, 1965), su cui, con il consueto vigore esegetico, scrisse: «Questo libro non significa che la Hiroshima che esiste adesso nella mia interiorità sia giunta a un punto d'arrivo. Al contrario posso affermare di avere finora appena scalfito la sua superficie. La realtà di Hiroshima può essere accantonata solo da quanti, di fronte all'evidenza, osano restare muti, sordi e ciechi». A dimostrarlo, riprese l'argomento alla fine del secolo scorso in un carteggio con lo scrittore tedesco Günter Grass, Ieri 50 anni fa (Archinto, 1997).

Pluripremiato a livello globale citiamo solo alcuni tra i riconoscimenti come il Mondello, il Grinzane Cavour, il Premio Akutagawa, il Premio Shinchosha, il Premio Tanizaki e nel 1994, lo stesso anno dell'assegnazione del Nobel, il rifiuto dell'Ordine della Cultura, onorificenza assegnata dalla Casa imperiale giapponese, mentre nel 2002 l'accettazione della Legion d'Onore della Repubblica francese fu il secondo autore giapponese a ottenere appunto il Nobel dopo Yasunari Kawabata: «Con forza poetica crea un mondo immaginario in cui vita e mito si condensano per formare uno sconcertante ritratto dell'attuale condizione umana», era la motivazione dell'Accademia reale di Svezia.

Kenzaburo rispose a Stoccolma con un discorso dal titolo «Il Giappone, l'ambiguità e io», in cui affrontava il terzo dei temi a lui più cari, quello del legame con memoria, passato e tradizione. Legame che può diventare obbligo fantasmatico, cui nella realtà si può opporre forse solo un lucido, e inquieto, anticonformismo.

La letteratura, però, offre ben altre armi per affrontarlo e Kenazaburo Oe le ha usate tutte: solo per citare i titoli più noti, in M/T e il racconto delle meraviglie della foresta (1986), il gruppo di ribelli protagonisti è protetto da forze magiche, mentre in Gli anni della nostalgia (Garzanti, 1987), Kei, l'io narrante, e Gii, lo sciamano eremita già apparso ne Il grido silenzioso creano una di quelle coppie indimenticabili per cui la parola poetica è l'ala che permette il volo tra culture e opere occidentali come la Divina Commedia o Huckleberry Finn sono già tutta l'educazione sentimentale che un ragazzo può desiderare.

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