Noi e Faber: la Francia s’innamora di Genova

Paolo Bertuccio

«Tranquilli, che Fabrizio De André è dalla nostra parte». Chissà cosa voglio dire con questa frase pronunciata mentre sono già salito sul palco e picchietto nervosamente sulle corde del mio basso elettrico Fender. Sono immerso nella stessa tensione che stanno provando i miei compagni di gruppo, 24 tra coriste e strumentisti, età media mai calcolata con precisione, ma basti pensare che io con i miei ventitrè anni sono il più vecchio. E forse il mio è un modo un po' goffo di invocare la protezione del nostro santo patrono musicale: tutto sommato, un'occhiata benevola Faber potrebbe anche riservarcela, e sarebbe meritata. Tocca infatti a noi, al Gratia D Ensemble, sigla che riunisce il coro del Liceo linguistico Deledda e la sua band di accompagnamento composta da allievi del presente, del passato come il sottoscritto e semplici amici, l'onore di portare in alto il nome di Genova e del suo più rappresentativo cantautore in uno dei più importanti festival giovanili d'Europa.
Belfort, Francia orientale: il nome della manifestazione, «Festival Internationelle de Musique Universitaire», non rende l'idea di questa festa lunga tre giorni. 14 palchi sparsi per il centro città, un'ottantina di concerti dei generi più disparati ogni giorno, senza contare le jam session spontanee in strada; 2500 musicisti da tutto il mondo accreditati. Non necessariamente universitari, ma quasi tutti giovani.
Ecco, in tutto questo Genova siamo noi. Il direttore artistico del Fimu Georges Moustaki, vecchissima conoscenza della hit parade italiana (chi si ricorda la sua «Lo straniero»?) ha deciso che un tributo a Fabrizio De André e alla sua città può trovare il suo posto in questo incredibile melting pot musicale, ed ora eccoci qui: domenica 4 giugno, verso le 20, nell'incantevole giardino del Conservatorio, per la prima delle nostre due esibizioni. Abbiamo una scaletta piuttosto equilibrata: grandi classici come «La canzone di Marinella» o «Amore che vieni, amore che vai» alternati a magnifici brani degli ultimi dischi di De André come quella «Dolcenera» dal testo criptico che, scopro con sorpresa, racconta l'alluvione del 1970, e «Ho visto Nina volare». Non mancano nemmeno gli inni veri e propri: «Il pescatore» e naturalmente «Creuza de ma». Si parla del mare, dei vicoli, del pesce fresco, del popolo: lo spettacolo è decisamente targato GE. Tredici o quattordici pezzi, l'importante - ci hanno detto - è non sforare: abbiamo un'ora di tempo e buona fortuna.
Ed è proprio la fortuna a mancare un po' in questo concerto d'apertura. Anzi, sul palco ne succedono di tutti i colori: fogli che il vento fa svolazzare via dai leggii obbligando i musicisti a prodursi in notevoli improvvisazioni; Federico detto «Nan», il batterista, che spezza una bacchetta sul finale del «Pescatore» e placidamente va a recuperarne un altro paio nel backstage. E poi lo psicodramma della povera cantante Silvietta Criscenzo, vittima di un abbassamento di voce e costretta a rinunciare in diretta a uno dei suoi due brani solisti, «Princesa». Nonostante tutto, ci divertiamo: stiamo pur sempre facendo musica, e qualcuno che ci ascolta e applaude là sotto c'è. E questo è solo il riscaldamento: il giorno dopo saremo sulla Place de la Republique, la più centrale e frequentata delle scene del festival.
Nel frattempo, portiamo in giro un po' di genovesità: a cena, nell'enorme mensa (gratuita!) riservata ai musicisti, davanti ai nostri piatti di misteriose verdure a cubetti che rimarranno una macchiolina indelebile in un'organizzazione per il resto precisa fino a risultare commovente, facciamo conoscenza con i Riserva Moac. Sono di Campobasso, la loro musica è quel tipo di travolgente folk un po' terzomondista - «Moac significa Molise, Africa, Cuba», mi spiega il batterista Oreste - che va molto di moda negli ambienti alternativi. Ci ritroviamo in piazza poco dopo, loro armati di zampogne, noi di chitarra, fisarmonica, percussioni varie e molta voce. Qualche tarantella, ma poi parte l'esecuzione extra long di Olidin Olidena con tutte le strofe, anche le più peregrine, e naturalmente senza censura. I francesi gradiscono e si fermano a ballare con noi, e chi se ne frega se non capiscono un parola. L'importante è aver sfatato in qualche modo il luogo comune del genovese musone: dateci da cantare e mettiamo volentieri da parte il proverbiale «riso reo».
Ormai la tensione si è sciolta, e lunedì pomeriggio possiamo affrontare il pubblico della Republique con più sicurezza. Stavolta sono proprio tanti, un muro di gente, ma va tutto liscio. Chi ha un minimo di esperienza musicale sa che ogni tanto arriva il momento magico in cui le note sembrano uscire fuori da sole, e verrebbe voglia di appoggiare lì lo strumento e godersi lo spettacolo, tanto le corde vibrerebbero lo stesso per conto loro. Ecco, in Place de la Republique succede proprio questo. «Via del Campo» commuove, «Bocca di rosa» diverte, «Volta la carta» trascina. Tutto naturale.

Nicola, il factotum della spedizione, riesce pure a vendere una manciata dei nostri dischi, il preside Ignazio Venzano gongola insieme al coordinatore del progetto Silvio Scardulla e, naturalmente, alla fine si festeggia a ridosso delle transenne: «O trilli trilli trilli, t'ae ciù musse che mandilli...». Mesdames et messieurs ridono con noi, che adesso avremmo una maledetta voglia di salire di nuovo sul palco e darci dentro fino a notte fonda. Ma sarà per la prossima volta.
Con Faber sempre dalla nostra parte.

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