Il nomade che insegue lo spirito del tempo

Una sera, su un aereo in volo da Parigi a Nizza, notai seduto davanti a me un uomo molto alto e snello, biondo, vestito con un paio di jeans e un giaccone blu da marinaio. Mi chiesi subito, non so perché, se poteva essere Le Clèzio, lo scrittore nizzardo che da sempre ammiravo e che non avevo mai potuto incontrare. Sarei rimasto nel dubbio se, a un certo punto, lui non avesse aperto il passaporto, rendendomi agevole leggervi il suo nome. Era lui, l’autore leggendario del Verbale, di Deserto, del Sogno messicano, con quella sua aria così poco libresca, quel suo sguardo così distaccato e intenso, quel suo stile da viaggiatore instancabile. Non gli parlai, quella sera, mi limitai a seguirne le mosse all’aeroporto, mentre a passo veloce guadagnava l’uscita, portando con sé la sacca che conteneva non libri ma bottiglie.
Le Clèzio, cresciuto a Nizza, in uno di quei palazzi altissimi sul porto vecchio, ha compiuto una parabola esemplare fino ad arrivare, ieri, al premio Nobel che incorona un autore fedele alla letteratura che è stato sempre fuori dalle mode, ma dentro lo spirito del tempo, che ha cercato la sua strada nella grande tradizione europea, ma riuscendo ad aprirla verso gli orizzonti di altre culture e di altre civiltà. La famiglia, come denuncia il nome, è bretone, ma di bretoni emigrati nell’isola tropicale di Mauritius, e poi tornati sulla Costa Azzurra. Così Le Clèzio racconta che da ragazzo, quando con un taccuino e una penna se ne andava a scrivere sulla spiaggia di ciottoli sottostante la Promenade Des Anglais, pensava di fronte a tutto quel mare di essere in una terra selvaggia, non dissimile da quella dove erano emigrati i suoi avi.
La sua opera ha questo respiro: all’inizio, siamo negli anni ’60, Le Clèzio allora ventenne adotta i modi vicini allo sperimentalismo, ma introduce già in esso vie di fuga verso l’estasi, verso il superamento delle proprie premesse materialiste. La passione del viaggio e delle mitologie dei popoli lontani faranno il resto. Dopo una stagione di confronto crudo con la realtà metropolitana nella sua violenta insensatezza, passa sempre più tempo in America Centrale, si occupa del sapere dei Maya e dei loro libri sacri, allarga i suoi interessi all’Africa, mostra in maniera sempre più chiara come oggi un grande scrittore europeo non possa che reinterpretare la propria tradizione maestra nel contesto di un mondo multipolare, con tante voci e tante nuove istanze.
Così il capolavoro di Le Clèzio, Deserto, che Rizzoli pubblicò da noi tanti anni fa senza particolare successo. È un romanzo dal respiro epico e che non si nega un nocciolo poetico di scrittura. Io ne rimasi molto colpito, ed è da allora che sento Le Clèzio come un fratello maggiore. Deserto è un romanzo che potenzia paesaggi, personaggi, destini, tra il cuore sabbioso del Sahara e i profumi difficili di Marsiglia. L’Europa contemporanea vi appare sterile, falsa, in confronto alla verità potente di una realtà ancorata a una saggezza millenaria. Una figura femminile, nel suo percorso e nelle sue metamorfosi, campeggia con una indimenticabile evidenza.
Nei libri successivi, tra cui La stella errante o Onitsha si attenua lo spessore epico, ma vengono potenziati i temi del viaggio, della ricerca d’identità, del rapporto con la natura, dell’incontro con civiltà diverse. Le Clèzio non è mai ideologico, non è mai succube di esotismi facili, mai esibizionista come certi romanzieri contemporanei che amano far scandalo e rumore per raggiungere quel successo equivoco ed effimero che scandalo e rumore sono soliti procurare. Leggere un suo libro-intervista significa inoltrarsi nel cammino che uno scrittore fa per diventare un classico, confermarsi nell’idea che la letteratura può ancora avere un ruolo di conoscenza, che lo stile è ancora uno strumento della scrittura per indagare l’universo.
Non saprei a che famiglia di autori appartiene. Isolato ma protagonista di imprese editoriali (lunga la sua militanza per Gallimard), schivo ma sapientemente presente sui media francesi, letterato ma viaggiatore e nomade, lo scrittore nizzardo prosegue una tradizione eminentemente francese di fiducia nella parola, nell’espressione letteraria, nella costruzione di un mondo attraverso l’immaginazione. Il premio Nobel a lui vuol dire che la letteratura, quella vera, ha ancora qualcosa di alto da dire. In Italia, dove i suoi libri non sono mai stati accolti con l’interesse che meritano, qualcuno si stupirà. Ma io sono contento che i troppi tifosi di Philip Roth, per esempio, abbiano ancora da aspettare. Le Clèzio è un autore in cui resiste una forte componente umanistica. Lo scrivere si colora in lui di speranza e di fiducia.


Lo ricordo in una bella intervista televisiva, mentre calmo, una mano appoggiata sul volto, confessava che durante la stesura di un libro un pensiero lo conforta, quello di non poter morire sinché il libro non ha preso forma, sinché la storia non si è conclusa. È una confessione sincera, drammaticamente dolce, per dire che la letteratura è una risposta della vita contro la morte e che c’è in essa ancora una istanza, anche leggera, di eternità.

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