Nonfarmale, il più grande dei restauratori italiani

Il suo laboratorio (privato) era un santuario: lavorò su Bellini, Mantegna, Giotto, Giorgione

Nonfarmale, il più grande dei restauratori italiani

Incantava gli occhi e il cuore di Franco Maria Ricci il Battistero di Parma con le sculture policrome di Benedetto Antelami, ma poteva vederlo, come nessuno prima di lui, grazie a Ottorino Nonfarmale.

Leggere questo nome potrà far sorridere qualcuno, soprattutto pensando a chi è stato, a che lavoro ha fatto. Nonfarmale è stato il più prestigioso restauratore italiano, per circa un cinquantennio di attività alacre ed intensa ai più importanti monumenti italiani. Ci ha accompagnato di chiesa in chiesa, di palazzo in palazzo, riportando la luce ad opere inghiottite dall'ombra. Anche nel caso di Ottorino Nonfarmale occorre andare molto indietro negli anni; lo conobbi a Bassano, nel 1977 quando, entrato da un anno in Sovrintendenza, iniziai a visitare i cantieri dei principali restauratori.

Ma il nome di Ottorino Nonfarmale destava soggezione e ammirazione per le capacità quasi magiche derivate da una grande esperienza e una tecnologia avanzata fondata sulla ricerca. La reputazione e la considerazione di Nonfarmale, rispettosissimo di un funzionario giovane (lui era nato nel 1929) erano straordinarie. E gli attribuivano un'aura che andava oltre la dimensione artigianale del suo impegno. Da lui si aspettavano miracoli. E ottenne l'affidamento dei cantieri più prestigiosi dell'arte italiana, con risultati formidabili.

Lo trovai, la prima volta, sulle impalcature di Piazzotto Montevecchio a Bassano, per il distacco dell'intera parete di affreschi giovanili di Jacopo da Ponte. Un'impresa titanica, oggi godibile nel museo civico della città.

Si era formato a Bologna negli anni di un nuovo slancio per la conservazione, a fianco di Andrea Emiliani. E, sotto la sua guida, conferì al restauro quella dimensione che, con aggettivo improprio ma persuasivo, si chiama «scientifica», che vuol dire conoscenza, analisi, diagnosi, ricerca.

D'altra parte Emiliani apparteneva a quella scuola bolognese, che significava la più importante tradizione della critica d'arte dopo Longhi, che aveva insegnato all'Ateneo bolognese dal 1934 al 1950, con grandi studiosi come Francesco Arcangeli, Cesare Gnudi, Carlo Volpe, Renato Roli, Eugenio Riccomini e, appunto, Emiliani. Questi ultimi due, pressoché coetanei di Nonfarmale, gli furono sempre vicini e diedero sostanza critica ai suoi luminosi restauri. Nonfarmale rappresentava l'alternativa, la modernità, rispetto alla dimensione istituzionale dell'Istituto centrale del restauro e della grande scuola di Cesare Brandi che egli rispettava, guardando anche, con molta attenzione, al secondo polo pubblico del restauro, rappresentato dall'Opificio delle pietre dure a Firenze, di tradizione e scuola diversa, sotto la guida di Umberto Baldini che, a partire dal 1983, prese anche la direzione dell'Istituto centrale del restauro di Roma e seguì il cantiere-scuola degli affreschi di Masaccio della Cappella Brancacci nella Basilica del Carmine di Firenze.

Con la totale fiducia della scuola bolognese e l'autorevole sostegno di Emiliani, Ottorino Nonfarmale, benché privato e in una terra comunista, divenne il terzo polo, ammirato come l'Opificio e l'Icr, destando molte invidie, ma con una risposta qualitativa così alta da diventare esemplare. Si andava da lui come in un santuario, in una grande clinica privata, in un San Raffaele del restauro, da tutti riconosciuto. In quegli anni di formazione e rivoluzione culturale, egli rappresentò l'equivalente, nella coscienza nuova della conservazione, del pluralismo garantito all'informazione da Mediaset, con l'impegno competitivo di Berlusconi. Non so se i due si siano mai conosciuti, ma Nonfarmale può essere definito il Berlusconi del restauro. E come Berlusconi, Ottorino fu molto osteggiato.

Negli anni in cui io arrivai alla Sovrintendenza di Venezia, era considerato un maestro, capace di risultati superiori a quelli degli istituti pubblici. Nonfarmale ha fatto scuola. Lo conobbi, nella fortuna della mia vita, anche prima di Franco Maria Ricci, scomparso lo stesso giorno; e da lui ho molto appreso, sia nei cantieri sia nel suo laboratorio, dove era possibile vedere tutta l'arte italiana. Aveva restaurato il capolavoro dei capolavori, la Tempesta di Giorgione, aveva restituito colore e luce al ciclo di Sant'Orsola di Carpaccio, e vita alla Pietà estrema sconvolgente di Tiziano.

Dove c'era un capolavoro da salvare c'era Nonfarmale. A Bologna il Crocifisso di Giunta Pisano, gli affreschi di Mezzaratta di Vitale da Bologna, mirabilmente distaccati per essere accolti nella Pinacoteca nazionale; i capolavori dei Carracci, di Guido Reni, di Guercino; e, su tutti, con orgoglio, l'Estasi di Santa Cecilia, malauguratamente trasportata su tela a Parigi. I tecnici del Louvre, pensando di migliorarne la conservazione, ne avevano trasferito la pellicola pittorica su tela, distruggendo strato dopo strato il supporto ligneo originale. L'ansia di Nonfarmale fu di restituirne l'illusione di essere ancora una tavola, con l'impegno tecnico di nuovi supporti consolidanti e il conforto degli studiosi (Brandi compreso, nel suo duplice ruolo di studioso e esperto di restauro).

A Bologna restaurò le più importanti sculture: il portale di San Petronio di Jacopo delle Quercia; e con impegno e passione di spirito e di conoscenza, il Compianto di Niccolò dell'Arca. Tutti i suoi cantieri furono cantieri-studio. A Ferrara il portale del Duomo, il salone dei mesi di Schifanoia, le pale d'organo di Cosmè Tura.

Nel suo studio si avvicendavano capolavori, con formidabile densità. A Rimini Ottorino si misurò con Piero della Francesca, con l'affresco aulico di San Sigismondo nel Tempio malatestiano; e con il Crocifisso di Giotto, il suo primo grande restauro, a 21 anni. Anche la raffinatissima scuola riminese fu riabilitata, soprattutto negli affreschi dell'Abbazia di San Pietro in Sylvis, vicino a Bagnacavallo.

A Mantova Nonfarmale, allievo di Arturo Raffaldini, in competizione con Mauro Pellicioli, il più grande della generazione precedente, mago dei restauri non scientifici (fra i quali la ricostruzione dell'Ultima Cena di Leonardo, prima del ventennale minuzioso intervento di Pinin Brambilla Barcilon) restaurò a Palazzo Tè la stanza di Psiche di Giulio Romano. A Padova, dopo Brandi, affrontò la ricomposizione degli affreschi di Andrea Mantegna nella cappella Ovetari della chiesa degli Eremitani, ciclo fondamentale del Rinascimento nel Nord Italia. E, sempre a Padova, il vasto ciclo di affreschi di Giusto de' Menabuoi al Battistero.

Su quelle impalcature io salii, e carezzai Cristo Salvatore; come fui sui ponti di San Severo a Bardolino, con i suoi forti affreschi romanici, in una serata indimenticata. La nostra amicizia era fatta di simpatia, velocità, carattere, stima, e, da parte mia, umiltà. Era un oracolo. E da lui si poteva soltanto apprendere.

Dopo Parma, tornò ad Antelami con i due solenni profeti del portale del Duomo di Fidenza.

Lo vidi nella chiesa dei Miracoli a Venezia, tra pietre e tavole restituite a uno splendore leggendario.

Lo vidi nella Basilica di San Marco a Venezia con i problemi insolubili della pietra salsedine. Ancora oggi il suo laboratorio, guidato da Giovanni Giannelli, lavora nella basilica di San Marco e, con grande determinazione, alla tomba di Canova ai Frari.

Lo trovavi anche all'Abbazia di Pomposa, vista prima nelle gite scolastiche e poi con i suoi occhi; e, con la stessa considerazione e stima fuori dall'Italia: in Francia per i tre portali reali della facciata della cattedrale di Chartres, per il portale laterale della Basilica di Saint-Denis a Parigi e per il mirabile e assoluto portale della cattedrale di Moissac. Nel 1971 gli venne commissionato il recupero degli affreschi di Ben Shahn a Roosevelt, nel New Jersey, raffiguranti l'arrivo dei migranti europei in America. Sublime e vivo intervento.

Tra le emozioni della mia infanzia, con Pomposa, c'era stata anche la visita, con mio zio Bruno Cavallini, a Pisogne, in Val Camonica, dei potenti e grotteschi affreschi del Romanino. Dopo anni vi ritrovai Nonfarmale.

Memorabile la sua attenzione al recupero della pittura originale sotto gli interventi ricostruttivi di cui era stato maestro Gaetano Bianchi.

Questo ci diceva, questo ci insegnava, a noi giovani funzionari che avremmo dovuto seguire, indirizzare, controllare il suo lavoro.

Inutile vanità.

Come ha dichiarato Emanuela Braglia, Nonfarmale «è stato uno degli ultimi grandi restauratori e sperimentatori, fedele al concetto che il lavoro dev'essere reversibile e non deve sovrapporsi alla mano dell'autore. Ha affrontato il lavoro con modalità nuove, a volte estemporanee e non codificate». Nel suo studio a San Lazzaro di Savena ho visto schiere di capolavori. E, come da pochi altri, da lui e con lui ho capito anima e corpo delle opere d'arte. E lui mi era riconoscente perché capivo, e per il poco che potevo suggerirgli. Lavorammo anche insieme, oltre che a Bassano, a Vicenza, a uno dei dipinti più importanti del mondo, il Battesimo di Cristo nella Basilica di Santa Corona, con quei mirabili angeli che aprono a Giorgione, il richiamo del rosso nel pappagallo; e l'apertura del paesaggio sui monti Berici, forse sul lago di Fimon. L'impegno fu grande, e io volli che lavorasse anche all'altare di Rocco da Vicenza.

Iniziammo (era il 1978) con Maurizio Seracini le indagini radiografiche.

Faceva parte della curiosità di Nonfarmale, del desiderio di sapere sempre di più, di vedere quello che non si poteva vedere. A lui, oggi che ci ha lasciato, dobbiamo soprattutto di aver visto con i suoi occhi quello che non si vedeva. Grazie.

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