Poche cose mi impressionano dell'arte contemporanea come mi accade con certi film di Werner Herzog. Nutro per lui un'ammirazione sconfinata, potrei considerarmi un suo fan, anche se da tempo, non mi piacciono i suoi film di fiction, almeno a partire da Grido di pietra. Dunque è una ammirazione selettiva, ma non per questo meno intensa.
Nel 2016 Werner Herzog girò un documentario sull'impatto nella vita umana dell'intelligenza artificiale, portava uno strano titolo Low and Behold, Reveries of the Connected World. Il cinema di Herzog, nella sua lunga evoluzione, ha trovato la propria formula poetica autentica nella non fiction. Il regista entrava in dialogo con la realtà, a partire però dalle forme estreme in cui essa si sviluppava. In genere era la Natura il luogo dove questo singolare realismo si confrontava con i limiti e le possibilità dell'umano. Stavolta invece Herzog partiva dall'artificio e dalla tecnica, ma senza cambiare sguardo. Si trattava di una Seconda Natura, perfettamente in grado di sostituirsi alle forme precedenti, che sfidava le basi stesse della condizione umana.
Guardavo lo svolgimento dei diversi capitoli in cui era strutturato il racconto. Tutto molto ipnotico, quasi che la presenza di Internet fosse un evento osservabile come la caduta di un meteorite o una indagine geologica sul pianeta Terra. C'erano interviste, spiegazioni, supposizioni che si alternavano aprendo nella mente suggestioni comprensibili più su un piano poetico che logico.
Verso il finale della pellicola, avvertii, però, una rivelazione, forse un appello nascosto. Veniva immaginato un progresso straordinario dell'intelligenza artificiale, e veniva chiesto a un guru della tecnologia, se in futuro avremmo avuto ancora bisogno dell'altro essere umano con cui parlare. La risposta fu negativa. Possiamo sapere tutto e compiere azioni necessarie alla nostra sopravvivenza basandoci sulle risposte che l'intelligenza artificiale è in grado di trovare in modo assai più rapido, comodo e immediato, di quanto qualsiasi essere umano potrebbe mai fare. In altri termini potremmo condurre una vita autosufficiente interrogando un chatbot, il che ci esonera dalla fatica relazionale, dai fastidi e dalle resistenze che gli altri ci obbligano a considerare. Sono passati quasi dieci anni e lo scenario è divenuto assai concreto. L'interrogativo del film di Herzog mi è spesso rimbalzato nella mente.
Negli anni orribili del Covid c'è stata una accelerazione dell'uso sociale dei dispositivi, che ha svelato come l'intero funzionamento della società poggi su infrastrutture comunicative altamente artificializzate, in grado di sostituirsi in modo efficiente al dialogo in presenza tra viventi in carne ed ossa.
La fisicità del linguaggio rischia l'estinzione o quasi. Ma può esistere una lingua senza il suo corpo?
Giorgio Agamben, mente finissima e scrittore ibrido, ha pubblicato recentemente, per i tipi Einaudi, un libro che punta dritto alla questione posta dal finale del film di Herzog sulla sopravvivenza del linguaggio umano.
Il titolo del volumetto di Agamben è, infatti, Il corpo della lingua. Naturalmente Agamben medita sul linguaggio si potrebbe dire da sempre, e in tutti i suoi libri, quindi apparentemente nessuna novità. Per comprendere, però, il carattere del pensiero di Agamben, si deve abdicare al voler collocare il suo tipo di scrittura in un ambito disciplinare. Per Agamben il pensiero non è identificabile con il suo uso logico-grammaticale, con definizioni, categorie e sostantivi, perché la lingua trascina con sé una eccedenza di senso rispetto a ogni regolarità prefissata. Mentre una certa filosofia del linguaggio vorrebbe correggere l'uso improprio della lingua, sottoporlo a una norma, il pensiero di Agamben non si separa mai dalla caoticità dalla lingua che lo esprime. Questa prospettiva radica il linguaggio nel corpo della lingua, cioè nel suo incarnarsi nell'esperienza concreta, ciò che l'assolutizzazione dell'intelligenza artificiale tende a distruggere nel nostro mondo.
Fin dall'inizio del nostro apprendimento scolastico, nota Agamben, siamo alle prese con la grammatica, come se l'uso della lingua debba determinarsi in base al rispetto della forma logica. Tutti noi, però, sappiamo che esiste una lingua parlata che non dipende da questa base, anzi esiste un piano dell'espressione creativa che si pone accanto all'uso grammaticale. Nella lingua cioè è confitta questa duplicità irrisolvibile tra soggezione alla norma grammaticale ed espressione mimico-gestuale che esorbita e parodizza qualsiasi rigore semantico. Secondo Agamben è il gesto del giullare, l'uso buffonesco della voce, l'esuberanza picaresca, che intonano la lingua in modo da stravolgerne il senso ammesso grammaticalmente. I lazzi e i doppi sensi estendono il corpo della lingua fino alla dismisura, fino ai limiti infiniti del senso possibile. Se il codice, la comunicazione, l'algoritmo intendono disciplinare il reale, stabilizzarne l'ontologia, assicurarne i confini semantici, al contrario il corpo della lingua reagisce bulimicamente. La lingua diventa vorace di nuove espressioni, ed esplode con le sue sonorità chiassose, con il corteo delle proprie maschere mimiche e col capovolgimento comico e parodistico della realtà.
Agamben illustra la sua meditazione attraverso una acuta e penetrante ricognizione della letteratura maccheronica, insistendo sul Baldus di Folengo, che poi riallaccia a Rabelais e Cervantes. Il maccheronico è appunto una parodizzazione vitalistica della lingua, che non appartiene a nessun ordine grammaticale definibile, ma che mette a soqquadro sia il canone di una lingua volgare, che si pretende petrarchesca, sia svela il carattere di lingua morta assunto ormai dal latino dentro la modernità. Il maccheronico è, cioè, un paradigma del corpo della lingua, una sua figurazione storica esemplare, che spiega l'insufficienza di una concezione puramente grammaticale del linguaggio. La realtà della lingua è gergale, vernacolare, dialettale, perché nel suo uso vivente non può prescindere dalla propria scorrettezza. Senza lazzi, motteggi, schiamazzi non c'è lingua che possa vivere, non c'è essere umano che parli in modo autentico.
L'esempio storico, però, rimanda alla nostra contemporaneità. Agamben da qualche anno tiene un blog, che lo ha reso popolare presso una platea di lettori non specialisti di filosofia, pubblicato sul sito della casa editrice Quodlibet. S'intitola infatti Una voce e in uno dei suoi post usa l'espressione Finis Italiae. Mi sono chiesto se non fosse che un uso parodistico della celebre formula della Finis Austriae, riferita alla crisi del mito asburgico nella letteratura mitteleuropea del secolo scorso.
Quale fine sarebbe in corso?
Agamben dice di essere preoccupato non tanto di una probabile estinzione demografica degli italiani, piuttosto che tra qualche generazione, nel corso di questo secolo, potrebbe non esserci più nessuno che parli la lingua italiana.
La nostra lingua italiana sta diventando una lingua morta come il latino nel corso dell'epoca moderna? Probabilmente sì. L'impiego della lingua italiana sarà intesa come un puro sistema di informazioni da trasmettere secondo un protocollo, così come la comprensione di una lingua morta si basa solo sul riconoscimento della sua grammatica. Un sistema di segnali dove la parlata è ridotta a rumore.
La lingua si sarebbe estinta, al suo posto resta solo un linguaggio artificiale.Se così fosse saremmo di fronte a una espropriazione del corpo della lingua, forse la più micidiale forma di alienazione della natura umana: colpita e atrofizzata là dove ancora geme e può urlare la sua voce.
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