Nuotando si rinasce ad ogni bracciata

«In acqua la percezione della nostra corporeità cambia: diventiamo leggeri, svincolati da regole. Siamo fluidi noi stessi come l’elemento che ci circonda»

Sei estati fa proposi su questo giornale una mia apologia del nuoto. Da allora, è cambiato soltanto il luogo dove ogni mattina entro in mare. Non più quella spiaggia libera stretta tra una scogliera e un piccolo molo, ma quella di uno stabilimento balneare di Sanremo che ha fama di essere il più elegante della città.
Non che le mie sostanze siano più floride. Anzi. Era ed è questione di comodità. Allora in due passi scendevo da casa già in costume su quel tratto di litorale un po’ sconnesso, scivoloso, quasi selvatico. Oggi, il mare più vicino a dove abito, pochi minuti a piedi, è quello dei bagni dove appena arrivo mi porge con un sorriso la chiave della cabina una adorabile cassiera bionda. Mi cambio, getto un asciugamano sul lettino, tanto so che non mi servirà a niente, e mi avvio subito verso la battigia. All’ora in cui entro in mare io, non c’è ancora nessuno. Eppure sono già le nove del mattino. L’acqua è limpida, e lo diventa ancora di più man mano che mi avvicino al molo frangiflutti dove spesso stanno in attesa del volo i gabbiani.
Si vedono pesci colore della sabbia che guizzano sul fondale in piccoli banchi. L’orizzonte si annuncia con un sentiero dorato e cangiante che arriva giusto davanti ai miei occhi. Alle spalle promontori verdi e file di palme. Allora mi chiedo perché per anni sono andato a cercare i mari della Florida, della Martinica, di Mauritius. Ma non sempre va tutto così bene. Ed è più colpa dell’uomo che della geografia e della natura. Un giorno nell’acqua alta due palmi ho recuperato un sacchetto bianco di plastica e l’ho portato a riva con la punta delle dita, ostentando davanti ai bagnini la mia operosità ecologica. Le grosse barche al largo, non sempre possedute da persone il cui grado di civiltà è proporzionale al reddito, causano qualche danno del genere.
E poi compaiono sempre più spesso le meduse. Se ne stanno lì quiete, traslucide, in fondo belle a vedersi, finché sono in acqua, e poi informi e sordide una volta che vengono prese nel retino e gettate sulla riva. Insidiose per il loro potere urticante, le meduse ti spingono a nuotare con una leggera sensazione di pericolo, di sfida, come giocando a una specie di roulette russa non mortale. Una medusa l’ho avvistata mentre traccheggiava trenta centimetri davanti al mio naso, e ho avuto la prontezza di riflessi di passare istantaneamente dal crawl al dorso, con un guizzo di cui non mi credevo capace, essendo da sempre così poco incline a qualsivoglia prodezza sportiva.
In acqua la stessa percezione della nostra corporeità cambia. Diventiamo leggeri, svincolati da regole, fluidi noi stessi come l’elemento che ci circonda. L’acqua che compone due terzi del nostro corpo individuale e, in un inquietante parallelismo, copre due terzi della superficie del nostro pianeta. Oggi mi sentirei di proporre una piccola metafisica del nuoto. In realtà, non ho mai pensato l’andare al mare come un semplice svago, un piacere estivo. Per molti lo è, ed è giusto che lo sia. Si tratta dei «bagnanti», parola oggi un po’ desueta con cui erano chiamati dai rivieraschi coloro che venivano a passare l’estate presso di loro. È un termine che rende l’idea.
Bagnante. Colui che si bagna. Potrebbe farlo con una doccia, in una vasca, vittima di un gavettone, sotto una bella pioggia. Invece viene al mare ad abbronzarsi, attività lecita ancorché non divertentissima, e quando entra in acqua lo fa con un insieme curioso di cautela e di impudenza. Si porta sopra il viscido di tutte quelle creme solari, e una pigrizia da automobilista che lo fa sguazzare da seduto nell’acqua che arriva alle ginocchia. Al massimo, gioca al pallone con quella libertà infantile di piombar giù a destra e a manca che dà lo stare in acqua vicino alla riva. Il mare è per lui una bagnarola, un catino dove sciacquare le tristezze metropolitane.
Ma, per fortuna, esistono i nuotatori. Sono sempre meno. Perché i veri nuotatori sono degli individualisti che detestano andare all’ammasso, sono esseri che hanno il senso della solitudine e delle lontananze, che sanno accettare una disciplina e coltivare uno stile. Vedi il nuotatore da come fa fendere l’acqua alla propria testa, usandola come una prua, da come prende respiro, da come tiene uniti i piedi, dalla forza simmetrica delle bracciate. Il crawl è lo stile più entusiasmante, per me. È lineare, penetrante, armonico. Classico. Gli stili che prendono il nome da animali hanno qualcosa di più primordiale. Ansimante, ritmico. Dionisiaco. Ma se devo essere sincero a me piace soprattutto nuotare sul dorso. Vedo il sole e il cielo brillare di un loro fulgore tutto dondolante, sento il corpo stirarsi come se si allungasse, le braccia alzate hanno qualcosa di invocante, poi si tuffano come remi perfetti. In altri stili sento presto la stanchezza. Sul dorso, ho spesso l’impressione (fallace, è vero) che potrei nuotare sino alla Corsica e oltre.
In realtà, io faccio parte di quella setta di nuotatori che non puntano direttamente verso l’orizzonte. Vado in parallelo alla costa. Come facevano gli antichi Greci con le loro navi. Quando punto al largo, è per poco. Per un vizio squisitamente estetico: nuotare lungo la scia del sole, e ogni volta che nella bracciata la mano affonda, vedere il fervere di tutte quelle bollicine che così assumono trasparenze d’oro. Un nuotatore più forte, va dritto verso il largo. Ne conosco, anche il mio anziano vicino d’ombrellone, un gentiluomo d’origine svizzera e dal nome wagneriano lo fa, destando sempre una certa tacita rimproverante apprensione nella moglie, che aspetta a riva.
Che dire di tante belle ragazze che non nuotano, ma se ne stanno sulle zattere di plastica multicolore a prendere il sole? Peccato. O forse meglio così. Il nuoto ha qualcosa di androgino. Non ha sesso. Una bella donna che nuota, ti accorgi che è donna e che è bella soltanto quando esce dall’acqua, «tu esci come Venere da un’onda», come cantava con inimitabili accenti Fred Bongusto. O, per venire ad esempi più alti, quando esita su un pontile prima di tuffarsi. Come quella Esterina a cui il giovane Montale si rivolge scrivendo: «L’acqua è la forza che ti tempra / nell’acqua ti ritrovi e ti rinnovi» e poi «t’abbatti fra le braccia / del tuo divino amico che t’afferra». Nuotare ha a che fare con qualcosa di amoroso. Spesso sono le donne ad accorgersi con più sottigliezza sensuale di questa realtà. Amore e perdizione sono le condizioni delle Sirene, figure del mito costrette a cantare e a nuotare per l’eternità. E chi saprà mai se felici o infelici per questo. Nuotare ha la stessa potenza mitologica del navigare, dell’andar per mare, del cercare se stessi e le isole dell’Eden. Con qualcosa di più fisico, di più immediato.
Nuotare vuol dire ritrovare una eco della nostra vita prenatale, sentire confusamente la verità primordiale, cellulare, del nostro essere fatti in massima parte di acqua, provare un vago ma non meno ricco senso di fusione con i due fattori portanti dell’universo, il Mare e il Cielo, dal cui coito secondo tante mitologie è nata la Terra.

Infine, poiché nuotare è anche immergersi con disciplina per andare verso un orizzonte inattingibile, verso un infinito che ci attira e ci si nasconde, qualcuno, io tra questi, potrebbe vedere nel nuoto una metafora non impossibile, non secondaria, della ricerca della Verità.

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