Una nuova Sacra famiglia "firmata" Jacopo Bassano

Evidente l'assonanza formale dei tre personaggi principali con la "Fuga in Egitto" di Pasadena

Una nuova Sacra famiglia "firmata" Jacopo Bassano

Può ancora accadere che in una casa italiana, su una parete di cuoio di Cordoba, si manifesti il miracolo di uno sconosciuto capolavoro della pittura veneta del Rinascimento. Non dirò dimenticato, ma certamente protetto e nascosto agli sguardi, senza chiedere di parlare, senza cercare tutta l'attenzione che merita con la festa di una intelligenza desta in una invenzione di totale libertà nel soggetto più consueto e più frequentato: la Sacra Famiglia. Tema semplice, svolgimento libero. È il momento del riposo, sotto un'edicola semplice ma non priva di dignità (si vede la base di una colonna classica, sulla destra, in uno spazio largamente occupato da un panneggio verde svolazzante, un fondale di scena) contro un paesaggio annuvolato. E riposo è, prima che scenda la sera, con il papà che si accomoda, disteso, con il solo desiderio di vedere quell'incredibile, scalmanato bambino che nessuno riesce a tenere fermo, che certo non è stanco né per il viaggio né per i disagi e le tempestose circostanze che quella fuga hanno imposto. Giuseppe è placido e pensoso, con il volto di un lavoratore preso dagli impegni di giornate difficili, e finalmente sollevato in una pausa cui riserva la stessa tensione di un impegno. Sta guardando giocare, ne è consapevole, dio Bambino. E registra che è proprio impertinente e capriccioso, come ogni altro bambino, senza gravità o maestà del ruolo: è un bambino e gioca. Il loro dialogo è tra un padre felice e un bambino indifferente, egoista, che solo vuol giocare. Il pittore è il primo che lo sa e che lo vuole, e lo immagina curioso solo del suo fantasma: il velo della madre che rincorre senza requie: un'idea assoluta nella sua inconsistenza: il velo, non una ciliegia, un fiore, un cardellino. Quanti oggetti quotidiani sono stati evocati per farlo giocare! Qui il pittore va alla essenza: niente. Eppure quello vuole, l'incontinente, e si agita, scalcia; mentre la madre, senza contenerlo, gli carezza delicatamente il pancino e il piede, un solletico misurato, un palpeggiare con tenerezza, un accondiscendere a capricci, scompostezze, agitarsi del bambino inconsapevole d'essere divino. È idea grande, miracolo pittorico, è il velo che scende dalla testa della vergine con i capelli raccolti in un turbante. Il vento genera un turbine, moltiplica pieghe e volute senza regole, agita la seta come fumo. Il bambino lo insegue. Una idea semplice, poco corrente, un divertimento. La madre accondiscende, ma è seria, pensosa, severa. E non per il velo con cui lo lascia giocare. È, semplicemente, altrove. Lui sta lì, lei sta con il pensiero della sua essenza. Pensierosa e aliena.

Di questa così umana e incantata e compiaciuta invenzione chi è dunque il pittore? Un pittore di campagna, abituato a vivere tra animali e contadini, come a farsene una sua personale Bibbia. Jacopo dal Ponte di Bassano. È un tempo in cui la semplicità e la naturalezza, che abbiamo registrato, sono frutto di una sofisticatissima ricerca e di una curiosità senza confronti, ben oltre i confini della pittura veneta e delle curiosità dei grandi veneziani, anche Tiziano, anche Tintoretto. Intanto c'è la seduzione, lontana e misteriosa, di Parmigianino. C'è il mondo, Vasari a Venezia, nel vicentino scalpita l'avventuroso Giovanni De Mio, e Lotto, Pordenone e Salviati, e Schiavone, e Romanino e Dosso, poco lontani, a Trento. È il momento dell'arrivo in laguna dei «demoni etruschi», come li definisce Roberto Longhi. Salviati, Sansovino, Pietro Aretino e, appunto, Vasari. Il momento di confrontarsi con la maniera moderna. Il dominio di Michelangelo. L'eccitazione culturale, che negli anni Quaranta del Cinquecento anima Venezia e il Veneto, trascina più di altri, come un vento incontenibile, un piccolo pittore di provincia. Nel suo laboratorio sotto il ponte di Bassano.

Non esiste peraltro documentazione su curiosi viaggi di Jacopo; mentre è evidente che il suo repertorio si nutre di stampe dalle quali trae figure, composizioni e dettagli minuti che miscela fino ad annettere il loro linguaggio formale nella propria misura stilistica. Stampe e xilografie di Tiziano, di Campagnola, Dürer, Cranach, Marcantonio Raimondi, Agostino Veneziano, Girolamo da Carpi e certamente del Parmigianino, che muore nel 1540. Fonti inconsuete ed eccitanti per un artista veneto, di scuola familiare, artigiano di provincia che restava fedele alle sue origini. Ad Angarano si esercita in una Trinità, con un meraviglioso paesaggio di campagna e un altro svolazzante e libero panneggio sulla testa del padre eterno, che è ancora un gioco senza fine, un capriccio, puro virtuosismo, fra cielo d'oro e nuvole nere, con una grandiosità michelangiolesca. Troppo? Troppo.

Il tempo è quello, tra il 1543 e il 1548: dalla Sant'Orsola per Mussolente alla Adorazione dei Magi (Edimburgo, National Gallery of Scotland), alla Fuga in Egitto di Toledo (Ohio, Museum of Art) e di Pasadena (Norton Simon Museum), dove un originario naturalismo convive con panneggi ondeggianti, in contrapposizione di colori clamorosamente dissonanti. Sono motivi che ritroviamo nell'Adorazione dei pastori (Hampton Court, collezioni reali), nella Salita al Calvario (Londra, National Gallery), nel Martirio di santa Caterina (Bassano, Museo civico) ispirato a una xilografia di Francesco Salviati per Pietro Aretino a Venezia, nella Madonna con il Bambino a Detroit (Institute of Arts).

Nella incontenibile tela di Pasadena Bassano si supera. Sono, in fuga, gli stessi protagonisti del nuovo dipinto, eccitati in un delirio di panneggi, di smorfie, di frenesie. Furibondi stati d'animo. E quella madre, con quel vorticoso turbante, e quel bambino intento al suo divertimento nel cercare il velo, da null'altro preoccupato. E poi, un sacco di accompagnatori come giocolieri, danzanti, ebbri, dionisiaci, nello stesso paesaggio della Trinità di Angarano. Davanti a loro, inarrivabile, conduttore distratto, un angelo nevrotico, sconvolto e disperato, prima che guida o custode, con ali e panneggi di tutti i colori, come neppure in Vivienne Westwood. Tutto andrà bene, Giuseppe, mesto, è rassicurato; ma l'angelo sommamente inquieto ha il volto attraversato da un disturbo incontenibile, come chi sappia ma non creda. Arriveranno, e con il restante corteo, l'angelo inquieto e inquietante se ne andrà. Al sicuro resteranno, sotto la raggiunta edicola, i protagonisti: Giuseppe, finalmente tranquillo, guarda l'imperturbato bambino alle prese con il suo gioco, la madonna vigila, cosciente e consapevole del bene e del male, del rischio corso e della calma raggiunta. Eccoli davanti a noi.

A confermare l'istinto, nel vedere tanti pittori prevedibili, e naturalmente umani, di Roberto Longhi: «Del Bassano si ha da pensare più sublimemente». Lo ha fatto, vivendo ad Asiago, e avendo di fronte la pala di Enego, dipinta con gli occhi nell'anima di Parmigianino, Mario Rigoni Stern, nella sua inevitabile lettera a Jacopo, raggiunto a Bassano: «Caro Jacopo, ancora una volta sono sceso dalla montagna per rivedere i tuoi capolavori. Sono ritornato a guardarli con attenzione e la scorsa notte non ho dormito perché dentro avevo quelle tue pitture che mi davano da pensare.

Cercavo ad occhi chiusi di selezionare le immagini che non erano di personaggi ma di uomini, donne, ragazzi, bambini, animali, alberi, casupole, montagne, cieli della nostra terra. Mi pareva, in quei pastori, contadini, artigiani, osti, di riconoscere volti ai quali poter dare un nome di stirpe famigliare».

Bassano a casa nostra.

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