Ma Obama non è Kennedy

Non è stato un grande successo, al contrario la debolezza della proposta politica internazionale del presidente democratico americano, Barack Obama, si è vista tutta nei giorni d’Europa. Non solo è lontana la grande Berlino del presidente al quale si ispira platealmente, quel John Kennedy tanto lontano e anche tanto sopravvalutato perché la morte santifica tutti, ma anche la sua piccola Berlino, quella della campagna elettorale del 2008, quando il candidato fu accolto come l’esempio del nuovo leader. Questa volta i black bloc e i finti pacifisti dei quali si credeva amico hanno inscenato guerriglie che avrebbero fatto l’invidia di George W. Bush.

Il discorso conclusivo di Praga, in tipico stile «I have a dream», stavolta la fine delle armi atomiche, non poteva avere peggiore cornice del lancio di un missile a lunga gittata della Corea del Nord verso il Giappone, chiaramente un prova generale di sperimentazioni più pericolose, sicuramente una risposta provocatoria, in violazione delle norme delle Nazioni Unite, alle offerte di dialogo avanzate dall’Amministrazione americana. Ma anche in Europa il presidente ha i suoi problemi. Il conflitto è stato evidente nel braccio di ferro per eleggere il nuovo segretario della Nato, dove la Turchia ha giocato pesante mettendo gli Stati Uniti, suoi grandi sponsor, in difficoltà, e nello scontro con il presidente francese Sarkozy sull’opportunità di far entrare la Turchia nell’Unione Europea.

Infine, anche il risultato e l’accordo di potenziamento della missione in Afghanistan sono più annunciati che ottenuti concretamente, e le sbandierate nuove relazioni positive con Mosca sono tutte da verificare. Per l’Afghanistan Obama non ha avuto nuove truppe combattenti; dopo averne inviate altre 17mila, in aggiunta alle 38mila già in campo, Washington si aspettava dagli alleati contributi che non sono arrivati. Barack si è consolato spiegando che «tutti i Paesi Nato hanno già truppe in zona di pericolo, gli addestratori che mandano non sono meno importanti delle truppe combattenti».

Di certo la Nato ha sostenuto il suo approccio strategico che prevede la ricostruzione del Paese, lotta ai talebani e attenzione al Pakistan, ma si tratta di un successo dimezzato. Anche al G20 di Londra, al posto del richiesto «stimolo fiscale globale», aveva ottenuto solo più fondi per il Fmi, anche a Londra Barack Obama ha scelto di fingersi soddisfatto, valorizzando gli aspetti multilaterali, come il ritorno della Francia nella struttura militare atlantica, l’adesione dei nuovi membri, Albania e Croazia, le possibilità che altri possano entrare, il rilancio dei rapporti con la Russia.

Obama si è sicuramente speso per la scelta del nuovo Segretario generale, e insieme ad Angela Merkel e a Silvio Berlusconi, ha ottenuto il consenso del premier turco Erdogan, che non voleva Rasmussen perché, da premier in Danimarca, difese giustamente il giornale che aveva pubblicato le vignette su Maometto. Ma ha dovuto promettere l’impegno Nato a combattere il terrorismo del Pkk curdo, e piegarsi alla scelta di almeno due generali turchi negli alti comandi alleati. Anche con la Russia il presidente americano annuncia progressi più che incassarne. Vuole ottenere che Mosca faccia pressioni sul governo iraniano perché blocchi il nucleare e aiuti gli Stati Uniti a far arrivare truppe fresche in Afghanistan; ma in cambio dovrebbe rinunciare al progetto dello scudo spaziale in Europa centrale, all’espansione della Nato in Europa Orientale, all’impegno nell’area del Caucaso.

Barack Obama, infine, ha deciso di lanciare la campagna di apertura ai Paesi islamici, anche i più fondamentalisti, e contemporaneamente ha lanciato allarmi di attentati in casa e in Europa. Ma se è vero che l’Europa non deve cadere nel tranello di pensare che la minaccia di Al Qaida sia passata solo perché «io sono il presidente e George W. Bush non lo è più», se è verissimo che l’organizzazione fondata da Osama bin Laden continua ad avere il mondo occidentale nel mirino ed è «più probabile che lanci un serio attacco terroristico qui in Europa, in una città, piuttosto che negli Usa», allora il presidente dovrebbe riflettere sull’opportunità di dialogare con i nemici degli Stati Uniti in tutto il mondo e in particolare in Medio Oriente.

L’Iran gli ha chiesto sostanziali cambiamenti nella politica estera come precondizione per il dialogo.

La Siria che l’America fermi l’indagine delle Nazioni Unite sull’omicidio dell’ex premier libanese Rafiq Hariri, i talebani pretendono addirittura il completo ritiro delle truppe straniere dall’Afghanistan prima di prendere in considerazione il dialogo. I moderati, gli alleati storici dell’Occidente, sono invece sconcertati e spaventati. Fuori dalla demagogia, è questo il primo inquietante bilancio del presidente del sogno.

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