Nato a Cagliari nel 1938, laureato in filosofia all'Università di Pisa, Remo Bodei ha perfezionato i suoi studi a Tubinga, Friburgo, Heidelberg e Bochum. Ha insegnato alla Scuola Normale Superiore e all'Università di Pisa. Dopo esperienze di docenza all'estero, attualmente è professore di filosofia (Visiting Professor) alla Università di California, a Los Angeles. Dal 2015 è socio corrispondente dell'Accademia dei Lincei, per la classe di Scienze morali, storiche e filosofiche. All'interno della sua vasta produzione, ricordiamo: Ordo amoris. Conflitti terreni e felicità terrestre (il Mulino, 1991), Geometria delle passioni. Paura, speranza e felicità: filosofia e uso politico (Feltrinelli, 1991), Le forme del bello (il Mulino, 1995), Piramidi di tempo. Storie e teoria del déjà vu (il Mulino, 2006), La vita delle cose (Laterza, 2009), Immaginare altre vite. Realtà, progetti, desideri (Feltrinelli, 2013).
La felicità è qualcosa di raggiungibile, di stabile, o qualcosa di sfuggente?
«La felicità non si può ottenere a comando. Non si può dire sii felice come si dice sii spontaneo. Cechov ci ricorda che la felicità è una ricompensa che giunge a chi non la cerca. Inseguirla con insistenza può produrre il risultato opposto. A volte, può capitare di raggiungerla e restarne delusi. La felicità non assomiglia a un cielo azzurro permanente. Piuttosto, è paragonabile alla curva di un grafico, con picchi, stagnazioni, cadute. Non sempre le vette più alte sono alla nostra portata; l'importante è assestarsi su un andamento medio soddisfacente. Secondo Hobbes la felicità è un progredire verso fini sempre più avanzati con il minor numero di impedimenti. Ritengo inoltre che l'obiettivo debba essere coniugare la felicità privata con quella pubblica. Anche gli stoici (ma non solo loro) la pensavano così».
Secondo Epitteto, per essere felici dobbiamo dare importanza solo a ciò che dipende da noi, visto che su ciò che dipende dagli altri non abbiamo alcun controllo. È d'accordo anche con questo?
«Penso sia un modo corretto di ragionare. L'ideale stoico era duplice: innanzitutto scolpire se stessi, quasi un'estetica dell'etica (Seneca, Marco Aurelio). In secondo luogo, regolarsi secondo il ritmo della natura, dell'universo. Osservando il mondo, anche nei suoi aspetti più spiacevoli, comprendiamo l'inevitabilità di quanto ci accade: il nostro essere immersi nella morte, nella malattia. Una volta compreso questo, risulterà più facile sopportare ogni accadimento con animo tranquillo».
E l'immortalità? Sopravvive ancora questa aspirazione? E quali forme assume? C'è un modo in cui possiamo renderci immortali? Nel Simposio Platone indica due vie: se si è artisti, ci si rende immortali attraverso le opere; altrimenti, attraverso la progenie...
«Da Platone in poi la medicina contro la morte è stata la filosofia. Se l'aporia è mancanza di vie di uscita, la filosofia è euforia, buona uscita; ossia tentativo di escogitare soluzioni in risposta ai problemi esistenziali. L'immortalità è stata intesa non solo come vittoria sulla morte, ma anche come il sollevarsi dal mondo dei sensi verso quello delle idee. Il problema attuale è che, anche tra coloro che professano una fede religiosa, è venuta meno la credenza nell'immortalità dell'anima, idea dotata di grande forza e che un tempo spingeva gli uomini a vivere in funzione di ciò che li attendeva dopo la morte. Oggi invece l'idea di immortalità è nebbiosa, sostituita da quella di longevità. Nel rapporto tra generazioni la giovinezza si è espansa ai danni dell'età matura; e la vecchiaia ha fatto il resto, annettendosi buona parte di ciò che restava di quest'ultima, non senza conseguenze».
In passato il tema dell'immortalità riguardava l'anima. Ma nel momento in cui l'anima diventa la coscienza, la mente, il cervello, tutte cose che si esauriscono col decadimento del corpo, il discorso dell'immortalità dell'anima finisce nel nulla, non è così?
«Nel 1694, Locke, fervente anglicano - consapevole del fatto che, poiché ogni conoscenza deriva dai sensi, non c'è modo di dimostrare l'immortalità dell'anima -, inventa l'espressione identità personale, una specie di filo, basato sulla memoria, che in parte ci lasciamo alle spalle (il passato), e in parte si srotola davanti a noi (il futuro), nel quale si addensano preoccupazioni, aspettative. Questo filo può essere reciso in qualsiasi punto e in ogni momento; e quando accade (allorché siamo per esempio colpiti dall'Alzheimer) la coscienza, intesa come consapevolezza di sé (e non più anima), svanisce di colpo e da quell'istante non esiste più un nocciolo di identità in cui riconoscersi. In sostanza, di noi non resta nulla. A proposito dell'identità personale, Hume parla di una repubblica di coscienze. Per Kant, l'io penso che accompagna le nostre rappresentazioni è indimostrabile. Per Nietzsche siamo una confederazione di anime. L'io di Cartesio non è che un prodotto dell'immaginazione. Per Levi Strauss, nient'altro che un bambino viziato. Tutto questo disprezzo nei confronti dell'io ha avuto un obiettivo: dimostrare la pochezza dell'uomo mettendo in discussione l'idea di responsabilità individuale. Pirandello si è occupato a fondo del tema dell'identità, producendo oltre una sessantina di opere basate sulla scissione della personalità, anche allo scopo di dimostrare che, se siamo multipli, viene meno ogni responsabilità personale».
Lei ha scritto che «ciascuno di noi vive nell'immaginazione altre vite, alimentate dai testi letterari e dai media. Per loro tramite tenta di porre rimedio alla limitatezza della propria esistenza». Perché questo bisogno è così forte?
«La nostra vita non ci basta, perciò col desiderio e l'immaginazione ne percorriamo ramificazioni ipotetiche, sperimentiamo altri tentativi di esistenza. A volte, lo stato di insoddisfazione sfocia nel patologico o si risolve in un fantasticare vano. Altre volte è salutare. Tuttavia, come ha fatto notare Croce, spesso dimentichiamo che, se siamo ciò che siamo, è proprio perché abbiamo fatto determinate cose, conosciuto certe persone e non altre. Non siamo un io isolato, monolitico, ma una corda in cui s'intrecciano innumerevoli fili: una ricchezza cui attingere».
Madame de Staël affermava che ormai non proviamo nulla che non ci sembri di aver già letto da qualche parte (o visto in qualche film, aggiungerei). Dunque le nostre sono solo copie di sentimenti, cloni di emozioni?
«Oggi viviamo un numero di vite infinitamente superiore a un tempo, attraverso letteratura, radio, televisione, viaggi, vita di relazione, Internet. Siamo aggiornati minuto per minuto riguardo ciò che accade agli altri. Non ci bastiamo più. La nostra identità si è fatta instabile. Abbiamo infiniti modelli cui ispirarci. Possiamo immaginare di essere chi vogliamo, e mezzi come il web ci aiutano in tal senso. Attenzione però a non diventare come Zelig. Pirandello dice che gli altri ci vedono in modo differente rispetto all'idea che abbiamo di noi stessi, la quale è una combinazione tra ciò che viviamo e ciò che immaginiamo. Tuttavia per Pirandello la soluzione al proliferare delle identità è riuscire a non essere più nessuno, a tramutarsi in pietra. Può tuttavia la perdita della coscienza, della propria identità rappresentare una via d'uscita? Di fronte alla durezza del mondo bisogna reagire, essere combattivi, non lasciare che le cose ci accadano, ci travolgano. Il mondo va affrontato, come dicevano gli antichi, con coraggio e discernimento».
Oggi il mondo è davvero più complesso?
«È diversamente complesso. È sempre stato complesso, però in passato tradizione, religione, ideologie ce lo offrivano in forma semplificata, dispensando certezze, magari illusorie. È sbagliato sostenere che le ideologie, le utopie siano scomparse; si sono appiattite sul reale, tramutandosi per lo più in utopie fatte in casa, su misura. La complessità del mondo è tale che spesso, quanto più cerchiamo di comprenderla, tanto meno riusciamo a penetrarla. Ricordo un detto rabbinico: Più penso a Dio più la cosa mi sembra oscura. Temerario è parlare delle cose che non si conoscono, benché siamo continuamente indotti a farlo, spesso senza cautela. Dovremmo invece esprimerci sempre al condizionale; ma all'occasione saper anche rischiare, esporci, per evitare di essere tramutati in pedine all'interno di un gioco che ci trascende».
Lei ha affermato che viviamo sempre nel presente e che dunque il tempo non passa, ma siamo noi che passiamo. Cosa sono dunque passato, presente e futuro? Cosa sono spazio e tempo e in che rapporto stanno?
«Non ci si può limitare all'immagine lineare che comunemente abbiamo del tempo. Dobbiamo pensarlo a grappoli. Il tempo assume innumerevoli forme, che cerchiamo di unificare col senso comune. A partite da Aristotele e passando per Newton, immaginiamo il tempo come una retta infinita su cui scorre a velocità costante un punto inesteso, il presente, che, avanzando a velocità costante, separa il passato, che ci lasciamo alle spalle, dal futuro, che viene rosicchiato poco alla volta. Naturalmente per descriverlo potremmo anche usare l'immagine del cerchio, come negli orologi, dove le lancette girano all'infinito. Ma questa non è la sola immagine del tempo di cui disponiamo. Per Agostino il tempo non scorre. Noi non ci spostiamo mai dal presente, perché il passato esiste soltanto nel presente come presente del passato; il futuro esiste solo nel presente come attesa, speranza, come presente del futuro; e il presente del presente è la percezione. Viviamo quindi in una triplice dimensione presente: il presente del passato, che è la memoria; il presente del presente, che è la percezione; e il presente del futuro, che è l'aspettativa. Ecco perché possiamo dire con Agostino che il tempo non passa. Ma possiamo immaginare anche altre forme di tempo: quello psichico, caratterizzato, secondo Freud, dalla compresenza della compresenza e della successione, in cui coesistenza e successione convivono. Quello del sogno, in cui pochi minuti possono abbracciare un arco temporale di anni. Il tempo del mito. Quello circadiano, di venticinque ore. Quello delle ere geologiche. E così via. Esistono dunque dimensioni di tempo parallele, sovrapposte, intersecantisi».
Quelle da lei illustrate sono forme di tempo relazionate all'uomo, alla sua percezione. Esiste un tempo oggettivo, indipendente dall'uomo? Se l'uomo non esistesse, il tempo continuerebbe a esistere? Esistono un «prima» e un «dopo» anche in assenza dell'uomo?
«È la domanda che si è posto Aristotele, il quale pur tra qualche ambiguità risponde sostanzialmente di no. Lo stesso fa Agostino: In te, animo mio, misuro il mio tempo. Il tempo esiste perché c'è qualcuno che lo misura. Che il tempo esista indipendentemente da noi è un fatto intuitivo. Tuttavia, se non ci fosse nessuno a misurarlo, a registrarne gli effetti, termini come prima e dopo perderebbero di senso. Quindi il tempo è legato alla sua misurazione, all'uomo. Ma l'uomo è parte integrante della natura e quindi ogni cosa acquisisce significato solo all'interno di questa interconnessione universale».
Veniamo alle passioni. Può spiegarci cosa intende Spinoza quando sostiene che ve ne sono alcune che ci rafforzano spingendoci verso la felicità e altre che ci indeboliscono trascinandoci verso l'infelicità?
«In Spinoza il problema è legato alle passioni che, non potendo essere represse, bisogna fare in modo di utilizzare. Esistono passioni tristi come paura, odio, invidia, che debilitano la nostra energia vitale allontanandoci dalla comprensione del mondo. Invece gioia, amore, speranza innalzano il nostro tono vitale favorendo non solo la razionalità, ma anche qualcosa di più alto: l'amor Dei intellectualis. Non possiamo combattere le passioni in modo frontale perché ne usciremmo sconfitti, perciò bisogna far sì che vengano utilizzate al meglio, attraverso trasformazioni che incrementino la nostra capacità di esistere. Per Spinoza l'uomo si compone essenzialmente di tre livelli: ragione, passioni e amor Dei intellectualis, che fonde ragione e passione tramutandole in una forza cognitiva e affettiva al tempo stesso. L'uomo non è semplicemente un animale razionale, è soprattutto desiderante; l'essenza dell'uomo consiste nella cupiditas, uno slancio verso l'alto, il di più. Non basta dire vade retro alle passioni; bisogna fare in modo che si evolvano proficuamente».
Come le passioni possono essere utilizzate quali strumenti di dominio sugli altri, anche politico?
«Ciò di cui ho parlato finora è l'aspetto positivo legato alle passioni. Ma ne esiste anche uno negativo, connesso al loro utilizzo in politica. La paura e la speranza di per sé non sono né buone né cattive. Sono legate all'incertezza, al timore di subire un male o di non poter conseguire un bene. Perciò si prestano a divenire strumenti del potere, della religione. La paura della povertà, della malattia; la speranza del benessere, della sicurezza. La paura dell'inferno, la speranza del paradiso. Spinoza si oppone a questo utilizzo delle passioni: gli uomini, dice, oscillano tra paura e speranza perché vivono nell'insicurezza; perciò fare appello alla razionalità fintanto che permane quello stato di cose è inutile. È necessario creare prima condizioni di maggiore sicurezza per tutti, poi fare in modo che ci si pongano traguardi sempre più elevati. Quella illustrata da Spinoza è una premessa di carattere politico. Quanto maggiore è l'incertezza in cui l'uomo vive, tanto minore sarà la razionalità che ci si può attendere».
A che serve la filosofia oggi?
«Non serve a nulla, se per servire s'intende qualcosa di strumentale, che produce guadagni o consente di acquisire conoscenze paragonabili a quelle di un astronomo. Però la filosofia, nella sua espressione più elevata, serve a costruire noi stessi. A creare un orizzonte di intelligibilità del mondo. La filosofia è soprattutto capacità di sviluppare uno spirito critico. Senza di essa la società occidentale si troverebbe a uno stadio più primitivo, brutale. Saremmo meno capaci di comprendere il mondo e più asserviti a poteri in grado di sovrastarci. L'apprendimento della filosofia si è accompagnato ai miei anni di conservatorio.
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