Ripubblichiamo il reportage di Carlo Piano da New York uscito nell’edizione del Giornale del 12 settembre 2001.
Nelle strade di New York ieri la gente non camminava con il solito passo frettoloso e distratto di chi deve correre in ufficio, di chi non ha tempo da perdere. Non camminavano proprio. Erano tutti fermi, chi seduto in terra, chi sul tetto delle auto immobilizzate nel traffico, chi riusciva a sorreggersi in piedi con lo sguardo perso e un pallore cadaverico sul viso. Come fantasmi fissavano ammutoliti l’apocalittico sudario di fuoco, polvere e macerie che avvolgeva l’intera downtown, quello che era il cuore pulsante dollari della Grande Mela. Dove svettavano le torri di 110 piani del World Trade Center ora c’è soltanto un cielo grigio e fumoso, i due giganteschi grattacieli in vetro e acciaio, alti 450 metri e che ospitavano 350 aziende dove lavoravano 50mila persone, sono spariti per sempre, crollati in un attacco terroristico che mai prima d’ora era stato osato.
I simboli della grandezza e della ricchezza dell’America, costruiti per sfidare i secoli, sono adesso un tappeto di detriti sminuzzati, una tomba che sta nascondendo la vera entità della tragedia. Si sono portati dietro un numero di morti che al momento è impossibile determinare. Il conto si farà nelle prossime ore dopo che il sindaco Rudolph Giuliani ha ordinato che tutta la parte bassa di Manhattan venga evacuata per consentire ai soccorritori di lavorare. Ieri a New York non si sentiva altro che il fastidioso stridere delle sirene dei pompieri e delle ambulanze. Gli ospedali erano al collasso, con qualcosa come 1.500 ricoveri. Mancava il sangue, mancavano i medici e anche le barelle. Quante vittime? «Il bilancio sarà più grave di quanto potete immaginare, ma ora dobbiamo pensare a chi è ancora vivo. Vi invito a mantenere, per quanto possibile, la calma e a restare a casa», ha detto il primo cittadino di New York in un appello televisivo. «Là sotto ci sono tantissimi corpi sepolti. Sentiamo grida e invocazioni d’aiuto che provengono dalle macerie - spiega Mike Smith, capo di una delle squadre dei vigili del fuoco- . Qui urlano tutti, corrono come impazziti cercando gli amici, i parenti, anche i miei colleghi e i poliziotti si aggirano sgomenti senza sapere bene cosa fare».
Restano le cartoline delle Torri Gemelle esposte nei botteghini dei giornalai e la gente che piange abbracciandosi, gente che non si era mai conosciuta prima. Si incontrano per strada e si stringono l’uno all’altro,spesso senza dirsi neppure una sillaba. Oppure esclamando «my God». Sì, mio Dio era la parola che si leggeva ieri sulle labbra dei newyorkesi. Il nuvolone grigio, che lentamente sta diradandosi, lascia davvero poche speranze, ne escono uomini bianchi di polvere che piangono come bambini, ogni ora che passa ne escono sempre meno. «Ho sentito un boato tremendo racconta Serena Mays che quando i due aeroplani hanno centrato i grattacieli stava lavorando sul Williamsburg Bridge - poi ho visto persone che si lanciavano dalle finestre e precipitavano. Saltavano nel vuoto da ovunque, sembravano burattini disarticolati ».
Sono le 8.45 quando il primo aereo, un Boeing 767 dell’American Airlines partito da Boston e diretto a Los Angeles con a bordo 92 persone, si schianta contro la torre nord del World Trade Center ed esplode. «Ero a una riunione al 107esimo piano dell’altra torre quando il mio boss mi ha detto: guarda là- racconta Clyde Ebkans, vicedirettore di una compagnia di assicurazione - e ho visto l’aeroplano infilarsi nel grattacielo e scoppiare. Mi sono arrivate in faccia le schegge di vetro della finestra». Clyde ha solo qualche cerotto sul naso, non è tornato a casa. Preferisce continuare a guardare inebetito la distesa polverosa e fumante dove svolazzano nell’aria migliaia di fogli. Atti di vendita da milioni di dollari, azioni, documenti importanti che ieri avrebbero fatto scannare insospettabili uomini d’affari e oggi non valgono più un centesimo. Nessuno li considera, li calpestano come fossero carta straccia.
L’orrore di ieri non aveva fine. Diciotto minuti dopo alle 9.03 un secondo Boeing 757 di linea della America Airlines con a bordo 64 passeggeri, decollato da Washington per Los Angeles,centra l’altra torre. «Ho sentito uno strano rumore e allora mi sono affacciato alla finestra - ricorda Luigi Ribaudo, impiegato nel vicino quartiere di Tribeca- ho visto che quel frastuono veniva da un grosso aereo con due reattori che stava volando troppo basso. Un attimo dopo si è infilato in una torre e l’ha fatta esplo- dere dall’interno. E adesso il World Trade Center non c’èpiù, non ci posso credere».
Dentro, al 47esimo piano, si trovava Peter Dicerbo, cassiere alla First Union National Bank che singhiozza su una panchina dei giardinetti di Greenwich Village: «Eravamo in 45, non so quanti se la siano cavata. Io ho preso le scale e sono corso giù finché non mi sono allontanato dal World Trade Center». Vicino a lui un barbone gli passa la fiaschetta di whisky avvolta in un sacchettino di carta, non si erano mai visti prima ma ieri erano come amici d’infanzia. Alle 10.07 crolla il primo grattacielo mentre le telecamere stanno trasmettendo in diretta in tutto il mondo e mentre lo stanno ancora evacuando, «questo è il più terribile attacco agli Stati Uniti dopo Pearl Harbor » grida nel microfono il giornalista della Nbc Tom Brokaw. La gente si riversa in strada. Venti minuti dopo tocca al secondo accasciarsi un piano sull’altro,come una casa fatta di carte da gioco, davanti agli occhi della folla incredula. Le schegge di vetro e di metallo sono arrivate fino a Brooklyn attraversando la baia dell’Hudson River e la polvere ha ricoperto con uno spesso strato fuligginoso mezza Manhattan.
«Si tratta del più audace attacco terroristico di tutti i tempi. Richiede operazioni logistiche chesolo pochissimi al mondo sono in grado grado di eseguire. Il primo nome della lista è quello di Osama Bin Laden», spiega alla televisione Chris Yates, esperto di aviazione del Jane’s Transport Magazine di Londra.
I newyorkesi si assiepano davanti ai megaschermi di Times Square che trasmettono a ritmo continuo le immagini della tragedia, che immortalano impietose la maschere dei sopravvissuti, i feriti ammassati nei pronto soccorsi, i parenti che chiedono disperatamente notizie dei propri cari. «Dov’è Michael? Dov’è Michael? L’ho sentito stamattina quando c’è stata l’esplosione. Ma adesso dov’è Michael?», domanda una donna ai poliziotti troppo indaffarati per ascoltarla.
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