Onore ai giudici uccisi Ma non dimentichiamo gli errori delle toghe

Ieri l'omaggio ai magistrati martiri del terrorismo. Giusto, siamo e saremo con loro. Ma bisogna ricordarsi anche delle vittime della cattiva giustizia. Orgoglio d'Italia, non eroi da usare / Paolo Guzzanti

Onore ai giudici uccisi 
Ma non dimentichiamo 
gli errori delle toghe

Non si tratta di avere la bava alla bocca. Ma di raccontare la storia di questo Paese. Le lacrime dei familiari di Falcone, Borsellino, dei tanti, troppi giudici che hanno perso la vita per non perdere la dignità. Le lacrime, il carcere, qualche volta la morte di chi era dalla parte sbagliata o forse no, era dalla parte della legge, ma è stato travolto e annientato dall’apparato giudiziario.

Il primo caso, il più vecchio di questa Spoon River, è quello di Enzo Tortora. Lo presero il 17 giugno 1983 insieme ad altre 855 persone in una retata anticamorra ordinata dalla procura di Napoli. Il presentatore televisivo rimase due anni detenuto, fra carcere e detenzione domiciliare, poi fu condannato a 10 anni per associazione camorristica e spaccio di stupefacenti. Lui continuava a proclamarsi innocente, i Pm non gli credettero. Presero come oro colato, i pm e i giudici di primo grado, le farneticanti dichiarazioni dei pentiti. Poi in appello, la verità salta fuori e nella sentenza si legge: «Si è trattato del nulla, del nulla più becero, più improfessionale, più sprovveduto, più tendenzioso». Il nulla, il nulla che può distruggere una carriera e uccidere un uomo. La riparazione arriva tardi. Tortora si ammala e muore di cancro il 18 maggio ’88.

Le sentenze, però, cambiano la vita. Come gli avvisi di garanzia. All’epoca di Tangentopoli, poi, l’avviso di garanzia rappresenta la morte civile. I Pm del Pool hanno sempre risposto alle critiche con altre inchieste. Sergio Moroni, deputato socialista, si spara un colpo di fucile dopo aver ricevuto due avvisi di garanzia per le tangenti. La sua non è una posizione grave, ma in quei giorni nessuno distingue. L’avviso di garanzia è un ergastolo sociale e il parlamentare toglie il disturbo. Prima scrive una lettera a Napolitano: «Non mi è estranea la convinzione che forze oscure coltivino disegni che nulla hanno a che fare con il rinnovamento e la pulizia». Parole che non eliminano la responsabilità penale, ma che indicano il contesto in cui è maturata la cosiddetta rivoluzione italiana. Parole che la figlia Chiara, oggi parlamentare di Fli, interpreta così: «I magistrati hanno colpito in modo abbastanza indirizzato. Tutto il Psi è finito sotto indagine. Ho il dubbio che ci sia stato un connubio fra una certa parte politica e la magistratura».

Un pezzo della vecchia classe dirigente è stato spazzato via, insieme al pentapartito, il vecchio Pci è rimasto in piedi. Un miracolo? È giustizia quella che colpisce inesorabilmente gli uni e salva gli altri? Certo, quando si spara, Moroni non vede vie d’uscita. Come non le vede l’ex presidente dell’Eni Gabriele Cagliari. È l’estate del ’93, l’estate delle tricoteuse. Cagliari infila la testa in un sacchetto di plastica e si uccide. In una cella di San Vittore, il carcere che aveva definito con un’immagine vagamente dantesca «il canile». La procura di Brescia apre un fascicolo: il pm Fabio De Pasquale avrebbe promesso la libertà a Cagliari, ma poi sarebbe andato in vacanza. De Pasquale viene prosciolto, gli amici del manager continuano pensare che sia stato ucciso. Le polemiche non risolvono il problema. Certo, Cagliari è stato schiacciato dall’apparato.

La giustizia è un potere. In quegli anni è il potere. Giudiziario, ma anche politico. Morale. Quasi teologico. Molti non reggono. Luigi Lombardini, magistrato, viene interrogato da uno squadrone di colleghi arrivati da Palermo e guidati da Giancarlo Caselli. È l’11 agosto ’98 e Lombardini è indagato per estorsione aggravata in relazione al sequestro Melis. Finito lo sfiancante confronto con i pm siciliani, Lombardini si allontana un attimo e si spara. È anche lui una vittima della giustizia? I pm di Palermo rispondono con la solita litania: «Abbiamo solo fatto il nostro dovere». Ma il procuratore generale di Cagliari Francesco Pintus detta dichiarazioni di fuoco: «Sono avvilito, disgustato. Ora bisogna che la verità venga fuori. Il dottor Lombardini era un buon magistrato ed è stato massacrato». Un necrologio durissimo che provoca reazioni indignate, querele, un cortocircuito giudiziario.

Un dato è sicuro. Le vittime di una giustizia distorta quasi mai sono riconosciute come tali. C’è sempre una spiegazione, una causa civile a difendere l’onore di quella toga. Tutto si mette a posto, anche se c’è una croce in più sulla collina di Spoon River. Perché nel marzo ’95 si suicida il maresciallo Antonino Lombardo? Lombardo comanda la stazione dei carabinieri di Terrasini, è un uomo importante per l’Arma, ha nelle mani un compito delicatissimo: convincere il boss Gaetano Badalamenti, in cella negli Usa, a collaborare. Ma il 23 febbraio ’95, nel corso della trasmissione di Michele Santoro Tempo reale, il sindaco di Palermo Leoluca Orlando e quello di Terrasini Manlio Mele, pure lui della Rete, puntano il dito contro il sottufficiale: è colluso con Cosa nostra. Lombardo si sente delegittimato, abbandonato, forse accerchiato anche dalla magistratura. Che ha trovato il suo megafono televisivo. È impossibile resistere. E Lombardo rinuncia alla lotta. Lotta impari, perché 99 volte su 100 è Davide, con la sua piccola fionda, a soccombere contro lo strapotere di Golia.

Calogero Mannino viene arrestato il 13 febbraio 1995 per il più classico e impalpabile dei reati siciliani: il concorso esterno in associazione mafiosa. Lo scagionano a gennaio 2010, dopo 15 anni e cinque processi. La Corte d’appello di Palermo chiude il lunghissimo ping pong: «Non sono state acquisite prove certe né concretamente apprezzabili sul presunto sostegno politico elettorale che Cosa nostra avrebbe assicurato all’imputato». Fine.

La fine che spesso arriva troppo tardi. Come per i coniugi Covezzi, genitori di quattro figli in un paese della Bassa modenese. La polizia porta via i bambini il 12 novembre ’98, poi arriva una condanna pesantissima per pedofilia. L’anno scorso, finalmente, l’assoluzione. Ma è troppo tardi. Quei ragazzi sono cresciuti, sono grandi, hanno rinnegato papà e mamma. Arriva tardi anche la riabilitazione per don Giorgio Govoni, prete e amico dei Covezzi, infilato nella stessa storia. Lo condannavano in primo grado, muore d’infarto alla vigilia del verdetto d’appello. Che riconosce la sua innocenza quando ormai non serve più. Un’altra croce sulla stessa collina. Altri sono stati più fortunati.

Daniele Barillà ha portato sulle spalle 7 anni e mezzo di carcere, poi gli hanno detto che si erano sbagliati. Non era lui il corriere della droga. Oggi è libero. Come Vincenzo Lodigiani, finito dentro Mani pulite, bersagliato 63 volte e 63 volte assolto. Un record di cui certo non va fiero.

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