Opportunista, spietato e viziatissimo: mio fratello Fidel

Juanita Castro, che nel '64 fuggì da Cuba, racconta nelle sue memorie molte scomode verità di famiglia

Opportunista, spietato e viziatissimo: mio fratello Fidel

Si chiama Juanita Castro e la sua vita è stata un incredibile paradosso. Lo è stata perché i suoi fratelli si chiamano Fidel e Raúl i due uomini più potenti del regime comunista cubano. Lo è stata perché lei, la sorellina minore, quella che tutti in famiglia chiamavano scherzosamente «Juana palangana» (Giovanna la bacinella) ha interpretato ruoli inconciliabili: cucciolo di casa, sostegno per giovani rivoluzionari in fuga, coraggiosa attivista del fronte anti Batista, attiva consigliera dell’attività del governo dei barbudos, nemica del Che e dei filocomunisti, salvatrice dei borghesi cubani perseguitati dal fratello e collaboratrice della Cia, infine esule anticastrista in Messico e poi negli Stati Uniti. Un’anticastrista che di cognome fa Castro, un’anticastrista odiatissima da quelli che rimpiangono ancora Batista.
Ora questa incredibile vita Juanita l’ha raccolta in un libro intitolato I miei fratelli Fidel e Raúl (pagg. 472, euro 19,50) scritto con la giornalista Maria Antonieta Collins e pubblicato da Fazi in corrispondenza del Salone del Libro di Torino (la signora Castro, ora 77enne, sarebbe dovuta venire a presentarlo, ma ha declinato all’ultimo, per motivi personali). Leggendolo ci si immerge in uno dei ritratti di famiglia più scomodi della storia contemporanea. Nel libro non c’è livore, «Palangana» non spara a zero sui fratelli, racconta con semplicità come da una famiglia laboriosa e borghese e da ideali di libertà possa nascere un dittatore.
Ecco allora un Fidel che sin da bambino è dotato di un fortissimo carisma, che «strega» il fratello Raúl e ne diviene l’idolo. Un Fidel che chiede sempre aiuto al vecchio padre «borghese», che si fa regalare la macchina e non la presta ai fratelli, che fa il rivoluzionario e intanto si fa mantenere dalla famiglia, quella stessa famiglia che per tenerlo buono gli aveva già comprato uno studio da avvocato. Un Fidel che litiga con la moglie Mirta che sognava un destino diverso e che non esita ad approfittare del suo fascino ogni volta che può, senza troppi rimorsi. E se a esempio Raúl manterrà sempre una forma di riguardo verso i familiari - in piena rivoluzione devierà dalla sua marcia trionfale verso L’Avana per andare a trovare la nonna -, il Líder Máximo quando si tratta di seppellire la madre appena morta sembra avere più che altro fretta. E già che c’è nega a un’altra delle sorelle di poter utilizzare un aereo per rientrare in tempo per le esequie: sarebbe una «concessione borghese». Lo stesso tipo di comportamento scostante e freddo che aveva utilizzato quando nel ’60 si era sposata Enma, la più bella delle sorelle. Il matrimonio, per la rabbia del Che, era stato fissato nella cattedrale dell’Avana - le persecuzioni religiose del regime sarebbero iniziate solo da lì a pochi mesi -, Fidel arrivò in ritardo in una divisa stazzonata, quella in cui lo ritrae la foto di famiglia.
Ininfluenti dettagli del carattere di un dittatore? Non secondo Juanita. Piuttosto piccoli segni che anche lei ha saputo leggere troppo tardi. Quel Fidel che il 2 dicembre 1961 dichiara per radio «sono marxista-leninista convinto e sarò marxista-leninista fino all’ultimo giorno della mia vita» ha sempre assunto la posa che gli era più conveniente. Juanita non ha dubbi, sino a quel momento «non era mai stato marxista in vita sua... la sua posizione è cambiata dall’oggi al domani in pochi istanti». Sì perché moltissimi di quelli che si erano ribellati a Batista non avevano nessuna intenzione di finire collettivizzati, non avevano nessuna simpatia per gli stranieri internazionalisti come il Che e amavano i barbudos perché sembravano «come i dodici apostoli» (Castro si organizzò anche delle belle coreografie con colombe che si posavano sul palco).
E così, mentre sempre più persone facevano una brutta fine, le liti di Juanita con Fidel divennero la norma, dal momento che la Castro si dava da fare per consentire la fuga al maggior numero possibile di perseguitati. Sino al passo decisivo. Un membro della famiglia rivoluzionaria più famosa del Sud America finisce per mettersi in contatto con la Cia, a tramare contro i suoi fratelli, a insistere nel combattere per quelle idee che già aveva urlato dal palco nel 1959: «Democrazia sì, comunismo no! Giustizia sociale sì, comunismo no!».
Una scelta che poteva finire in un solo modo: una fuga precipitosa il 29 giugno del 1964, una fuga senza ritorno. Un distacco definitivo sancito da queste parole dette in conferenza stampa: «I miei fratelli hanno trasformato la mia terra in una enorme prigione circondata dall’acqua. La mia gente è inchiodata a una croce di tormento imposta dal comunismo internazionale». Da allora ne è passato di tempo e Juana de la Caridad Castro Ruz ha fatto un sacco di cose. Ma ancora guarda le foto dei suoi genitori e dei suoi fratelli e soffre. Non ha voluto mai essere complice del regime, ma nemmeno riesce a odiare quei fratelli di cui conserva le immaginette della comunione. E se c’è qualcosa che la fa arrabbiare sono quelle ricostruzioni «psicologiche» che cercano di attribuire le caratteristiche di Fidel semplicemente alla sua educazione. Lei, suo padre Ángel Castro e sua madre Lina li ricorda come genitori amorevoli che hanno dato tutto il possibile ai figli.


Gli uomini sono a volte ciò che decidono di diventare e, per la sorella, Fidel è tutto in una frase detta prima di andare in Messico: «A trentadue anni prendo il potere... Non dimenticare questo: se esco, arrivo; se arrivo entro; e se entro, trionfo». Purtroppo aveva ragione.

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