Ora l’opposizione rischia un ko alle elezioni 2006

Paolo Armaroli

Niente dà più successo del successo. Questo detto, in uso negli Stati Uniti, vale un po’ dappertutto. Anche in Italia, si capisce. Di più, nel nostro Belpaese chi ha successo fa simpatia. E la simpatia porta consenso. Ne prendano buona nota capi, capetti e caperonzoli dell’Unione. Non c’era bisogno di leggere il libro di Luca Ricolfi per sapere che lor signori, con quella puzzetta sotto al naso, sono tutt’altro che simpatici. Per dirla tutta, sono la quintessenza dell’antipatia. Il vento non l’hanno più in poppa. E può ben darsi che perdano rovinosamente le elezioni politiche.
L’inversione di tendenza la si è avuta nei giorni scorsi a Montecitorio nel corso della discussione sulla riforma elettorale, approvata in men che non si dica. Prodi e i suoi cari erano convinti di fare cappotto. E, per il vero, potevano snocciolare qualche buona ragione. Per lungo tempo, per troppo tempo, la Casa delle libertà ha dato l’impressione di un pugile suonato costretto alle corde per non cadere a terra. Come una combriccola di ubriachi, ognuno andava per proprio conto alla disperata ricerca di un improbabile particulare guicciardiniano. Senza rendersi conto, gli sprovveduti, che così segavano il ramo dell’albero sul quale stavano a cavalcioni.
Date queste premesse, i caporioni dell’Unione sono andati per suonarle. E invece sono stati bellamente suonati. Un miracolo? Niente affatto. Se adesso la Casa delle libertà è tornata al centro del ring, come ai bei tempi, è perché i suoi leader hanno ritrovato le ragioni dello stare insieme. I quattro moschettieri della maggioranza – Berlusconi, Fini, Casini e Bossi – hanno serrato i ranghi e ottenuto alla Camera sulla riforma elettorale una squillante vittoria che fino a qualche tempo fa nessuno avrebbe pronosticato.
La prima doccia fredda l’opposizione l’ha ricevuta quando a scrutinio segreto l’assemblea di Montecitorio ha respinto le due pregiudiziali e la questione sospensiva. Ciò nondimeno, Fassino e compagni di strada hanno continuato a nutrire fiducia. Come il povero Facta alla vigilia della marcia su Roma. Erano convinti che la maggioranza non avrebbe tenuto e sarebbe andata sotto in una delle tante votazioni segrete. Vi potete immaginare la loro faccia quando sono stati costretti a ricredersi. Né possono contare sul Senato. Perché, come l’esercito di Vittorio Emanuele III, farà il suo dovere. Di qui a poco, vedrete, confermerà il limpido voto finale espresso dalla Camera giovedì. Con buona pace di Fassino.
Con la schiuma alla bocca, i deputati dell’Unione hanno pronunciato bugie in quantità industriali. Hanno detto peste e corna di una riforma elettorale che loro stessi volevano nella passata legislatura. Hanno affermato che avremo un ritorno alla Prima Repubblica, sorvolando sul fatto che la proporzionale è corretta da un premio di maggioranza e da diversi sbarramenti. Hanno ventilato l’ipotesi che il presidente Ciampi, ancora una volta tirato per la giacchetta, rinvii il provvedimento alle Camere per manifesta incostituzionalità. E fanno finta di non sapere che i tre punti segnalati dal Quirinale sono stati opportunamente corretti. Hanno dato ad intendere che chi prenderà meno voti otterrà più seggi. Mentre questa riforma assegnerà la palma della vittoria alla coalizione che prenderà anche un solo voto in più rispetto all’altra. Coprendosi di ridicolo, hanno sostenuto che questa riforma non assicura la governabilità. E lo dicono proprio coloro che hanno sparato a zero contro la riforma costituzionale che conferisce al primo ministro poteri che garantiscono la stabilità ministeriale.


Un giorno sì e l’altro pure Prodi dichiara che è un giorno nero per la democrazia. Balle. Lo è solo per lui. Come Totò, ora dovrà cercarsi casa. Con il rischio, a dispetto del risultato delle primarie, di restare in mezzo a una strada.
paoloarmaroli@tin.it

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