Prima che il Popolo della libertà si trasformasse da cartello elettorale in partito, il dibattito sulle sue prospettive politiche è stato scarso. Dopo il congresso fondativo, si è fatto via via sempre più sfuocato, forse in ragione dell’idea per cui il Pdl è la semplice proiezione organizzativa della maggioranza di governo. Un errore, perché dentro il centrodestra si sta silenziosamente realizzando quel processo di fusione tra culture politiche che è tappa necessaria per trasformare il «popolo» in «partito». Fino a oggi siamo stati abituati a pensare la cultura politica del centrodestra in termini plurali, come accostamento tra le precedenti tradizioni liberale, sociale e nazionalpopolare, socialista, cattolica e conservatrice. Il passo successivo, come mostra il successo di innovazioni come il New Labour o il sarkozismo, è quello di ripensare e ricostruire i propri pilastri identitari in termini di sintesi e superamento e non di sommatoria, sapendo che non sono sufficienti l’indicazione del leader e la stesura del programma elettorale. Questo sta accadendo, anche se in forma embrionale, e vale la pena darne conto.
Partito nuovo, il Popolo della libertà ha davanti a sé due compiti che, in termini di analisi, diventano due sfide. Per prima cosa, la sfida organizzativa: passare da sommatoria delle classi dirigenti dei partiti che l’hanno formato a entità politica organizzativamente definita. L’ha rilevato anche Silvio Berlusconi alla direzione nazionale del partito: la priorità è quella del territorio, organizzazione, candidature, proposta politica. Il centrodestra, in particolare nel Mezzogiorno, terra eternamente contesa di consensi e per questo terra mobile nell’andamento delle preferenze elettorali, ha come imperativo quello di mettere radici solide nella società. Per far questo, e per evitare di ridursi a una miscela di pacchetti di voti che portano in dote le personalità politiche che lo compongono, un partito ha bisogno di strutture, militanti, sedi, processi di selezione e reclutamento di dirigenti chiaramente definiti, canali di dialogo istituzionalizzati con i corpi intermedi e i movimenti sociali. Un partito di questo genere dispone di un’apertura alla società molto superiore a ciò che consentivano i vecchi partiti di massa, e di una capacità organizzativa molto superiore rispetto al modello del partito «leggero» guidato dalle tecniche massmediatiche di marketing elettorale.
La seconda sfida è quella più complessa, ma è decisiva: dare forma a una cultura politica originale, sufficientemente modernizzatrice e inclusiva per dare rappresentanza a un elettorato, quello del Pdl, frastagliato per orientamenti etici, bisogni sociali e specificità geografiche, come mostrano le analisi in profondità condotte negli ultimi anni. Nei mesi precedenti la costituzione del Pdl, Giulio Tremonti ha proposto la forma culturale del nuovo centrodestra, sulla base di uno scenario sociale, geopolitico ma anche ideologico profondamente diverso al 1994, quando nacque l’alleanza del Polo delle libertà. Oggi i centri di produzione culturale si sono moltiplicati, e così l’enfasi sulla sicurezza – individuale, sociale, lavorativa, ambientale – come parola-chiave di visione politica, così come il passaggio dal globalismo al ritorno degli Stati e delle nazioni, dal liberismo all’economia sociale di mercato, dalla semplice esaltazione dell’individuo alla valorizzazione delle comunità e dei corpi sociali, sono ormai metabolizzati come punto di partenza dell’elaborazione del Pdl. All’interno di questa cornice si stanno ridefinendo le antiche appartenenze culturali interne al centrodestra, chiamate a dare risposte su temi cruciali come l’identità nazionale, l’integrazione dei nuovi italiani, l’etica pubblica, il governo delle metropoli, il rapporto tra libertà e sicurezza e tra libertà economica, solidarietà e interesse nazionale. Prova ne sono la vivacità delle fondazioni vicine al Pdl e il dibattito intellettuale che ogni tanto si affaccia sui media. Prova ulteriore e recente, per passare a un altro piano, è il Libro bianco sul futuro del modello sociale italiano, La vita buona nella società attiva, elaborato da Maurizio Sacconi come spunto per una riforma personalista e sussidiaria del welfare fondata sul binomio persona-responsabilità. Lo slogan «La persona prima di tutto» proposto da Sacconi, e la valorizzazione della dignità della persona umana a fondamento del concetto di «laicità positiva» elaborato tempo fa da Gianfranco Fini, rappresentano un «nucleo ideale», ha scritto Luciano Lanna, su cui fondare una proposta culturale moderna e italiana che supera precedenti categorie della politica. Tant’è che il personalismo è diventato punto di raccordo culturale tra le esperienze del popolarismo cattolico, del socialismo riformista e della destra sociale. Non è un caso che Gianni Alemanno, in questi giorni, abbia chiamato in seminario a Orvieto Tremonti, Sacconi e La Russa con lo scopo dichiarato di aprire un cantiere di riflessione sugli «orizzonti di valore» del centrodestra.
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