Nel loro salotto buono le nostre bisnonne la cantavano come una graziosa arietta del '700 più languoroso. Che effetto farà, al pubblico del Festival dei Due Mondi, riascoltare la celebre Che farò senza Euridice? intonata da un moderno Orfeo in giacca e cravatta, come il grido di uno strazio disperato? «L'opera del passato dev'essere interpretata con un linguaggio contemporaneo - afferma convinto Damiano Michieletto - così esprime il suo valore più profondo, che supera i tempi in cui è stata composta». Sarà dunque l'ennesima sfida l'Orfeo ed Euridice di Gluck con cui Michieletto, fra i più acclamati registi d'opera al mondo, presenterà a Spoleto da venerdì 5 luglio, e per due sole preziosissime repliche, lo spettacolo già dato nel 2022 alla Komische Oper di Berlino. La sfida di un regista che non considera l'opera un reperto del passato.
Gluck racconta di Orfeo, che scende agli inferi per ritrovare la sua Euridice strappata alla vita, e di Amore, che gli concede di riportarla nel mondo a patto di non girarsi a guardarla, durante il loro ritorno alla luce...
«Nella nostra versione questo viaggio assume un valore metaforico. Abbiamo una coppia già da tempo in crisi. Quando lei tenta il suicidio, lui improvvisamente apre gli occhi. Quante volte nella vita tutti noi ci siamo accorti del valore di ciò che avevamo solo quando non l'abbiamo avuto più? È quel che accade a Orfeo. La sua discesa agli inferi, per riavere indietro l'amata, diventa così un viaggio interiore: è il percorso che egli deve compiere alla ricerca della propria coscienza, dei propri errori. È un viaggio dentro sé stesso».
Un mito antico che parla dell'uomo moderno?
«Che parla dell'uomo. In ogni tempo l'uomo dà per scontato ciò che possiede, e ne capisce l'importanza quand'è troppo tardi. Ma la finitezza della vita può spingerlo ad aprire gli occhi. Amore (si badi bene: Amore) permette ad Orfeo di tornare sui suoi passi. Attraverso la sofferenza, però. Così ancora oggi questo mito ci dice: se vuoi amare davvero devi essere disposto a soffrire. Cosa c'è di più eterno? Alla fine del suo viaggio, Orfeo non avrà solo salvato Euridice: sarà diventato un'altra persona. La sofferenza gli avrà permesso di guardarsi dentro, di crescere, di migliorare. E tornare ad amare in modo diverso. Migliore».
Un viaggio metaforico ambientato in uno spazio astratto, come sempre più spesso nei suoi spettacoli?
«Sì: uno spazio bianco in un'architettura pronta ad aprirsi, di volta in volta, su volumi diversi. Per contrasto, la discesa agli inferi sarà materializzata dal coro che, coperto di nero, sembrerà come una colata di lava infernale che avvolge Orfeo. Uno spettacolo evocativo con un'estetica molto asciutta, molto sorvegliata».
Anche quando sono provocatorie, le sue scelte appaiono sempre motivate, sempre ispirate dalla musica.
«Si dice spesso riportiamo l'opera ai giovani. Giusto. Ma in che modo? Semplicemente considerandoli fruitori passivi, oppure stimolando in essi una partecipazione attiva, basata sui contenuti? Un allestimento d'opera, oggi, deve appagare il gusto musicale ed estetico, certamente; ma anche i contenuti. Sono i contenuti a creare il pensiero; sono i contenuti a far esplodere tutte le potenzialità dell'opera, che sono infinite».
A Spoleto nei panni di Orfeo ci sarà il celebre controtenore Raffaele Pe. Cioè (secondo il gusto barocco, resuscitato in età moderna) un uomo che canta con la voce da donna. Per molti è un'altra provocazione.
«Capisco gli spettatori che si stupiscono: la voce del controtenore fece lo stesso effetto anche a me, la prima volta che la sentii. Mi spiazzò. E mi chiesi Ma perché?. Tutte le cose lontane dalla nostra abitudine culturale, però, sono utili. Perché ti obbligano allo sforzo della comprensione; a far lavorare il cervello. Allontanarsi dalla tradizione significa condurre il pubblico in un viaggio nella conoscenza di qualcosa di diverso. Lo stesso viaggio che fa Orfeo. Lo stesso, in fondo, che facciamo tutti, nella nostra vita».
Nel 2025 lei presenterà alla Scala Il nome della Rosa, su musica di Francesco Filidei; quindi West Side Story a Caracalla, poi il Lohengrin inaugurale all'Opera di Roma. Dove trova il tempo per fare tutto?
«Amo il mio lavoro. E ho la fortuna di disporre di un team di collaboratori stupendi, con i quali ho lavorato fin dai primissimi tempi: siamo cresciuti insieme.
Li ascolto sempre, soprattutto quando criticano le mie idee. L'artista non deve mai isolarsi, altrimenti si considera arrivato, comincia a pensare mi criticano perché non mi capiscono. Ma fra noi ci mettiamo sempre in discussione. È il solo modo per essere veramente creativi».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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