Ernst Jünger, ufficiale della forza di occupazione a Parigi, mette su carta le prime riflessioni sulla pace nel 1941. Il testo inizia a circolare, in maniera parziale e sotto forma di duplicati, in quell'ambiente di fronda al regime che organizzerà l'attentato a Hitler del 20 luglio 1944 ma verrà pubblicato solo nel 1945, con una dedica al figlio Ernst, mandato a morire dai nazisti sulle scogliere di marmo di Carrara.
La pace, ora riproposto da Mimesis (pagg. 96, euro 10) con postfazione di Maurizio Guerri, si colloca ben oltre una teoria politica da modellare su contendenti che stanno compiendo i più indicibili assassini di massa e in un ambiente che non esita a definire «mattatoio» e «carnaio», rappresentando la premessa teorica su cui costruirà l'idea per una rinascita delle coscienze.
In primo luogo perché l'eroe pluridecorato ostenta un congedo definitivo dall'idea di guerra come strumento politico, per via di un tempo in cui l'irruzione della tecnica, l'industrializzazione mobilitante, l'orgia di violenza e forme sistematiche di distruzione svelano l'evidente frattura con l'antico spirito cavalleresco («quando era la spada a salvaguardare l'ingiustizia»). E poi perché intuisce che l'epoca della mobilitazione totale vede la prospettiva della guerra governare anche lo stato di pace. Lo aveva scritto già nel 1925 sostenendo che dallo stile bellico si potesse risalire allo stile dell'epoca e al «tipo d'uomo».
Fatte queste premesse, l'armonia tra i popoli e qui il punto nodale del testo - può solo nascere dalla interpretazione di questa sterminata «guerra civile di portata mondiale» come un drammatico lavoro di semina (titolo della prima parte del libro) da cui far venire alla luce il frutto della pace, che è il titolo della seconda parte.
Una pace, perciò, dai tratti religiosi sigillata dal sacrificio di tutti i popoli del pianeta i cui destini sono oramai avvolti da un intreccio inestricabile. Col consueto linguaggio onirico, nel coacervo di richiami simbolici, spesso criptici e al limite della indecifrabilità, ci ricorda infatti che non siamo alla fine di un percorso ma all'inizio di un altro che «crea nuovo diritto» dove perderanno senso le norme preesistenti e i valori.
Per tale motivo Jünger non rincorre l'idealismo kantiano, un modello pacificato da estendere su scala globale segnato da elucubrazioni di stampo illuministico, accordi basati sulla pura legalità e asserviti esclusivamente al diritto, alla volontà dei singoli contraenti e dei loro trattati perché non tutto può essere disciplinato in codicilli. A riprova di ciò segnala il totale fallimento della Società delle Nazioni.
La sua idea di pace ha piuttosto il calco di un carattere spirituale e si fonda su una giustizia superiore perché, oltre al diritto, riconosce una dimensione sacrale, «una luce che squarcia le tenebre».
Lontano dalle ipotesi di «pace perpetua», dalle teorie di Hans Kelsen e dalle ipotesi neo imperiali di Carl Schmitt, su cui pure per qualche tempo si era soffermato, riponendo fiducia in una Europa soggetto dotato di sovranità e costituzione, patria continentale «dove un alsaziano potrà vivere come un tedesco, o come un francese, senza essere costretto a divenire l'uno o l'altro», Jünger si avvia con questo testo ad un cambio di paradigma. Cambio che aveva preavvertito sin dalla Prima guerra mondiale - dove «i fronti vermigli per la prima volta hanno saldato il globo con cuciture incandescenti» - e di cui avrà conferme dopo la Seconda guerra quando, pur strutturandosi l'opposizione ideologica tra Occidente e Unione Sovietica, leggerà nelle due metà i prodromi di un incipiente «stile globale», di «un ordine planetario già compiuto» che non ha ancora assunto una configurazione definitiva.
La pace sembra così anticipare, quasi preparare Lo Stato mondiale, che chiude un trittico aperto con i testi del primo novecento sulla mobilitazione totale. Superato lo Stato-nazione, abbandonata l'ipotesi schmittiana dei grandi spazi, Jünger si richiama ad un «nuovo senso della terra» che rievoca su un altro piano il nomos della terra di Schmitt, persuaso che quando sarà raggiunta la fase di completamento dello Stato mondiale sarà possibile liberarsi dall'organizzazione e quindi dal dominio, e non più grazie alla politica ma ad una nuova dimensione spirituale, una «Nuova Teologia come scienza prima», qualcosa «di più nobile dei confini della patria» che individuerà nell'umanità intera.
Tuttavia, se ne La pace, si appella alla responsabilità di un'intera generazione uscita dalla guerra, quindi vincitori e vinti, e soprattutto «di quegli uomini capaci di aprire una breccia nella mera funzionalità, chi per spirito umanitario, chi in nome della libertà e chi perché si assume coraggiosamente una responsabilità diretta», nei decenni successivi riaprirà ancora una volta l'angoscioso scontro tra libertà e
forme imposte dall'organizzazione riportando tutto alla spinta etica del singolo, quella del Ribelle prima e dell'Anarca dopo quale figura del tutto distaccata rispetto alle trasformazioni politiche e ai processi collettivi.
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