Ho fortemente voluto questa mostra che mette a confronto l'opera di Giovanni Paganin e quella di Ilario Fioravanti e che finalmente si propone negli spazi del Mart in concomitanza con la mostra dedicata agli Etruschi del Novecento, con un accostamento che ho immaginato fecondo di riflessioni e stimoli, per l'intento di proporre ai visitatori del museo nuove visioni e una lettura dell'arte del secolo scorso secondo prospettive impreviste.
A partire dal sottotitolo, «Il grido e il canto», il progetto curato Marina Pizziolo e Marisa Zattini, la prima specializzata nell'opera di Paganin, la seconda in quella di Fioravanti, propone un raffronto che ha in sottotraccia la provocazione intelligente propria dell'ossimoro e si amplifica attraverso i contributi in catalogo di Giuseppe Mendicino che indaga il rapporto di amicizia tra Paganin e Mario Rigoni Stern e dal dialogo tra Tonino Guerra e Ilario Fioravanti.
Un pensiero lo si può urlare o cantare, dichiarare con drammaticità o fare della drammaticità stessa una metafora con cui affrontare i momenti difficili della vita. Il confronto tra questi due longevi scultori che hanno attraversato il Novecento si rivela quindi una potente lente di ingrandimento. Le differenze di poetica, di soggetto, di linguaggio plastico emergono in un appassionante corpo a corpo, che si propone come emblema delle diverse possibilità del figurativo.
Giovanni Paganin (Asiago, 1913 - Milano, 1997) e Ilario Fioravanti (Cesena, 1922 - Savignano sul Rubicone, Forlì-Cesena, 2012) non hanno ceduto alle sirene delle avanguardie, ma sono rimasti fedeli all'idea che scolpire è dare forma al corpo, in una ricerca inesausta che rivela il senso del tempo. Solo che per Paganin il corpo è potente simulacro, affondo solitario e consapevole nel dolore del vivere: un corpo che la rigorosa nudità colloca fuori del tempo. Per Fioravanti, al contrario, il corpo è il luogo della storia, di un tempo che si declina nell'unicità poetica di donne, uomini e bambini che interpretano la loro parte nel teatro della vita.
Da un lato il corpo nudo, brutale, e i gesti esasperati, dall'altro il mascheramento, una certa ironia e uno sguardo più sereno, ma mai indifferente. E hanno bene portato a compimento i miei intenti le due curatrici nella scelta delle opere che popolano gli spazi del Mart come simulacri di un passato e di un presente da attraversare con l'opera che gli artisti ci hanno lasciato, ognuno con una diversa ma autentica e viscerale capacità espressiva.
Nelle loro parole, che ho piacere di citare, si coglie il senso di questo progetto. Paganin, originario di Asiago ma milanese di adozione, attivo nel solco di Corrente, «è un uomo che ha vissuto l'esperienza artistica come una missione morale, facendone il fulcro di un'indagine appassionata sulle ragioni del vivere», scrive Pizziolo. L'esperienza dei conflitti del secolo scorso lo aveva provato nel profondo, corpo e anima feriti dalla devastazione che diviene così tema centrale di espressione e ricerca poetica, in quei corpi scarnificati che nei gesti esasperati cercano di ascendere pur nella irreversibile caduta. «La scultura ha ben poche ragioni di essere», afferma Paganin, «se non fosse per la disperata pazzia di qualcuno, la disperata pazzia di dire gridare e testimoniare, comunque, la fede nell'uomo».
Una distanza siderale separa la poetica di Paganin da quella di Fioravanti che scrive: «Creare è un impegno forte, è persino sofferenza, ma è una sofferenza che porta gioia».
Di Fioravanti, originario di Cesena, Zattini afferma che l'artista «ci dimostra che anche le cose più banali, sottratte all'evidenza della nostra quotidianità, possono assurgere alla categoria dello straordinario. Ogni paradiso è perduto per sempre se resta latente. Fioravanti si è posto di fronte alle cose della vita con levità ed energia, con spirito libero per affrontare la sua grande ascesa mistica».
E allora il clown, il saltimbanco, il funambolo della vita, consapevole del suo equilibrio precario, ci insegnano la strada da percorrere, ci ricordano che a volte è necessaria anche una maschera dietro la quale celare la nostra vera natura.Ecco, dunque, il senso di questo confronto. Il grido di Paganin e il canto di Fioravanti diventano paradigma del nostro coraggio necessario: quello di saperci sull'orlo dell'abisso, ma di riuscire a sperare.
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