"Papà fece capire agli italiani perché non è mai troppo tardi"

La figlia ricorda il maestro che negli anni '60, grazie alla tv, insegnò a leggere e scrivere a un milione di analfabeti: "Ha avuto mille vite"

"Papà fece capire agli italiani perché non è mai troppo tardi"

Una frase che racchiude la voglia di apprendere di un intero Paese, «Imparare a leggere e scrive per conoscere tutto il resto dell'umanità». Firmato, «Alberto Manzi». Uomo dai mille interessi, di bella presenza e grande capacità di trasmettere il sapere. Una specie di centauro della divulgazione: metà Bruno Munari, metà Piero Angela. La didattica come gioco puntellato dalla curiosità che si fa parola. Professione, insegnante elementare. Ma la definizione è limitativa, come dare a Maradona la semplice qualifica di calciatore. Manzi è stato invece un raffinato pedagogo, spazzolando però questo ruolo da ogni biancore di polvere. È il 15 novembre 1960 quando il 36enne maestro Alberto Manzi inaugura il programma televisivo più modernamente «nazionalpopolare» (controversa definizione su cui, un trentennio dopo, si accapiglieranno Pippo Baudo e l'allora presidente Rai, Enrico Manca). La trasmissione si intitola Non è mai troppo tardi e andrà in onda sul primo canale della nostra «Televisione di Stato» per otto anni, riuscendo nell'impresa di far prendere la licenza elementare a oltre un milione di adulti ex analfabeti.

Il segreto di un risultato educativo (ma anche umano e sociale) così importante? L'approccio familiare del «metodo-Manzi», cioè un mix vincente di empatia, competenza e semplicità «teatrale» nella comunicazione di nozioni basilari. Il successo di Non è mai troppo tardi trasformò il maestro Alberto Manzi in uno dei volti più popolari e amati di un'Italia ancora affamata di scolarizzazione. A riempire quei piatti vuoti col cibo del sapere, provvide lui. Che detestava tanto la burocrazia polverosa dei presidi quanto i rituali cartacei di pagelle e registri di classe; roba obsoleta, come palline di naftalina nelle tasche dei vecchi cappotti.

Per questo maestro romano - naturalmente elegante - l'indispensabile si concentrava in gran fogli di carta bianca e un pennarello nero. Stop. Con queste due semplici strumenti «tecnologici», Manzi si fece precursore di quella che oggi viene pomposamente definita «didattica interattiva»; capendo però - unico ai suoi tempi (e forse anche ai nostri) - che non può esserci flusso di cultura se il professore rimane avvinghiato allo scoglio della cattedra.

Manzi, infatti, le cattedre le odiava in quanto di ostacolo a tutto ciò che di bello e divertente si cela nel mare dell'apprendimento. Per questo Manzi ha sempre insegnato col sorriso sulle labbra, tipico di chi entra in aula non per dovere, ma per piacere.

C'è chi la chiama «passione», chi «missione», chi «vocazione». Nel maestro Manzi erano un tutt'uno. Come racconta con la figlia, Giulia, in un libro pieno di sorprese: Il Tempo non basta mai, Alberto Manzi una vita tante vite (add editore).

Giulia, come vorrebbe venisse ricordato suo padre?

«Papà non è stato semplicemente il volto televisivo di Non è mai troppo tardi, ma molto di più. La sua è stata un'esistenza piena di capitoli. Tutti ugualmente intensi e significativi».

Li analizzeremo. Però è inevitabile partire da quel fatidico provino che lo portò nel 1960 ad essere scelto dalla Rai come il «maestro di Italia». Con un compito da far tremare i polsi: aiutare i propri connazionali ad affrancarsi dalla piaga, all'epoca ancora assai diffusa, dell'analfabetismo.

«Ogni scuola doveva indicare un docente idoneo per quel ruolo. E il preside dell'istituto dove insegnava papà segnalò il nome di Alberto Manzi».

Come andò la prova di selezione?

«Papà lo spiega in un'intervista di cui c'è ancora traccia su internet. Disse che all'inizio furono interpellati i soliti raccomandati. Ma non andarono bene. Poi finalmente arrivò il suo turno. Gli misero in mano un copione da leggere, una sorta di lezioncina da recitare a favore di telecamera».

E lui la recitò?

«Ma figuriamoci. Esordì con un perentorio: Chi ha scritto questa roba qui non capisce nulla di scuola. Posso dire quello che voglio o devo per forza attenermi al foglio prestampato?».

All'inizio la commissione giudicatrice rimase sbigottita. Ci fu un rapido consulto. Poi gli dettero l'ok.

«Papà iniziò a disegnare su un grande foglio e a spiegare a modo suo. Insomma, l'esatto contrario della lezione convenzionale ideata dalla Rai per i candidati al programma. Finché dall'altra parte si sentì una voce: Basta così, abbiamo trovato il maestro. Mandate via tutti».

E suo padre?

«Rispose: Va bene, allora posso andare via anche io?. Al che il capo della commissione lo bloccò: No, lei resta. Il maestro che cercavamo per la nostra nuova trasmissione è lei».

Il titolo Non è mai troppo tardi fu un'idea di suo padre?

«No. Fu della Rai».

È bellissimo, sembra l'enunciazione di una filosofia di vita.

«Sono d'accordo. Nell'esistenza di ognuno di noi almeno una volta abbiamo pensato che fosse troppo tardi per fare qualcosa, quel titolo dice invece il contrario. Ed è una grande verità. Che ci aiuta a rialzarci quando cadiamo, a rinascere quando pendiamo che ormai sia tutto finito».

Un destino comune, forse, anche alle «tante vite» di suo padre cui fa cenno nel titolo del libro?

«Pagine a volte dolorose e tormentate. Perché descrivono un Alberto Manzi, per certi versi, poco noto anche per me che l'ho perso quando avevo 9 anni e lui 73».

«Per scriverne ha dovuto scavare a fondo. Cosa ha scoperto?».

«Le tante facce di un uomo rivoluzionario».

Rivoluzionario in che senso?

«Perché costantemente in lotta contro ingiustizie, disonestà e arroganza del potere».

Una coerenza pagata a caro prezzo. Come quella volta che fu «processato» e, per punizione, rimase senza stipendio per quattro mesi.

«Tutta colpa di un timbro».

Un timbro?

«Erano i primi anni '80. Il ministero dell'Istruzione decise di sostituire i voti con i giudizi. Papà non condivideva questo modalità di valutazione. Allora realizzò un timbro con scritto Fa quel che può. Quel che non può, non fa. E lo stampò su tutte le pagelle. Finì davanti a un giudice che gli ordinò di non usare più il timbro».

Lui rinunciò?

«Macché. L'anno successivo fece la stesa cosa, ma senza usare il timbro. E scrisse, a mano, la stessa frase su tutte le pagelle».

Insomma, un amante della provocazione.

«Non era una provocazione. Papà era intimamente convinto della dannosità sia dei voti sia dei giudizi».

Cosa proponeva in alternativa?

«Il dialogo. Far capire cioè agli studenti (e ai loro genitori) quali fossero i punti deboli, utilizzando però solo la forza della parola».

È vero che suo padre una volta riempì il registro di classe con una serie di parolacce?

«Anche quello fu un atto di protesta contro i regolamenti bizantini che soffocano, ancora oggi, il mondo della scuola».

A proposito della scuola di oggi. Suo padre è stato una specie di precursore della Dad (Didattica a distanza). Come giudicherebbe il maestro Manzi la scuola da remoto in versione Covid?

«Non è corretto paragonare la trasmissione Non è mai tropo tardi alla didattica a distanza. In realtà nella trasmissione condotta per otto anni da papà, dall'altra parte dello schermo c'erano tantissimi insegnanti che assistevano in presenza gli studenti-adulti durante le lezioni televisive. E questo non è è un particolare da poco».

Nelle «tante vite» di Alberto Manzi, un ruolo importante lo ha avuto Don Giulio, un missionario che operava nel Sud America dei dittatori sanguinari e dei diritti negati al popolo. Suo padre conobbe Don Giulio e per anni combatterono insieme per la libertà e l'istruzione ai campesinos.

«Una scelta che costò a papà esperienze terribili, tra arresti e torture. Le violenze di cui testimone, e vittima, ritornano spesso nei tanti libri scritti nel corso della sua vita».

Per liberare alcuni compagni prigionieri in Bolivia una volta partì dall'Italia con dei barattoli di pelati che, in realtà, erano pieni di polvere da sparo?

«Papà aveva fatto la guerra. Non aveva paura di nulla. Era un pacifico, ma davanti alle imprese temerarie non si tirava certo indietro».

Non a caso il suo primo incarico lavorativo fu in un carcere minorile.

«Papà era giovanissimo. Gli altri detenuti al suo arrivo lo scambiarono per uno di loro. Quando seppero che il maestro che attendevano era proprio lui, un tizio lo sfidò a fare a pugni: Se vinci tu, fai lezione. Se vinco io, tene stai zitto e non rompi le scatole. Vinse papà. E non solo fece lezione, ma riuscì a coinvolgere tutti e 93 i detenuti in un progetto didattico che entusiasmò l'intero gruppo».

Anche sua madre è stata un'insegnate. Lei non è stata mai tentata di salire in cattedra?

«Mia madre insegna ancora. Ha 66 anni e quest'anno andrà in pensione. Anche lei, in tema di scuola, ha le stesse idee di mio padre. Quanto a me, ho una vita professionale piuttosto incasinata...».

Che storia d'amore è stata quella tra suo padre e sua madre?

«Bellissima. Nata sulle scale di una scuola, ovviamente. Mio padre era più grande di lei di 30 anni. Quando la vide rimase come inebetito dalla bellezza di quella ragazza con una lunga treccia bionda. Sentì che tutti la salutavano con un Ciao maestra. Allora papà si avvicinò e, sconfiggendo la timidezza, disse anche lui Ciao maestra. L'anno dopo erano marito e moglie».

Suo padre ha avuto anche un'esperienza amministrativa come sindaco di un comune a cui era molto legato.

«Fu una parentesi molto amara. Gliene fecero di tutti i colori. Papà era lontano anni luce dai compromessi che caratterizzano il mondo della politica. Voleva fare il bene del paese nel rispetto della legge e della meritocrazia. Glielo impedirono».

Per anni è stata gelosa della memoria di suo padre. Restia nel parlare di lui e delle sue «tante vite». Perché ha cambiato idea?

«Perché un personaggio come Alberto Manzi merita di essere conosciuto da tutti gli italiani».

E, magari, studiato nelle scuole.

«Sarebbe un sogno. Intanto dal 2008 esiste un Centro a lui intitolato con sede nella Regione Emilia-Romagna che tutela e valorizza il materiale conservato in collaborazione con l'Università di Bologna, la Rai e il MIUR».

A proposito di MIUR, nell'archivio del Centro Alberto Manzi c'è anche la lettera di reprimenda che suo padre scrisse nel 1950 all'allora ministro della Pubblica istruzione, Guido Gonella.

«Parole dure sul trattamento economico riservato ai docenti, e sulle mancate riforme per una scuola più efficiente».

Poco o nulla è cambiato.

«Purtroppo».

Nel buio, però, brilla una luce.

«Per gli altri è quella di un maestro. Per me, è quella di un padre. Entrambi indimenticabili».

«Indimenticabile» come la lettera-testamento lasciata dal maestro Manzi ai suoi alunni di quinta elementare. Ne ricorda il passaggio-chiave?»

«(...)Ora dobbiamo salutarci. Io devo salutarvi. Spero che abbiate capito quello che ho sempre cercato di farvi comprendere: non rinunciate mai, e per nessun motivo, sotto qualsiasi pressione, ad essere voi stessi. Siate sempre padroni del vostro senso critico, e niente potrà farvi sottomettere. Vi auguro che nessuno mai possa plagiarvi o addomesticare come vorrebbe (...)».

Un auspicio valido ancora oggi.

«Soprattutto oggi».

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