Il paradosso italico di un comunismo

Turi Vasile

Ci sono giorni in cui, quando meno te lo aspetti, qualcuno ti apre gli occhi su tue lontane avventure chiarendotene il significato del quale non avesti del tutto consapevolezza mentre le vivevi, sia pure con ardore. Uno di quei giorni fausti è stato, per moltissimi della mia generazione, il 13 settembre scorso, quando il Corsera ha consacrato, sia pure brevemente, il merito benefico di quanti nel 1948 si impegnarono perché il comunismo non conquistasse in Italia il potere. Quelle due righe sul Corriere della Sera hanno assunto una proporzione enorme per noi cattolici che fummo il motore di quella battaglia culminante, il 18 aprile del 1948, con la clamorosa sconfitta del comunismo, perché ne è autore Luciano Violante.
Egli è uomo di indubbia intelligenza e di alto rango, anche se hanno suscitato riprovazione, almeno in una parte considerevole dell'opinione pubblica, certi suoi accanimenti giustizialisti a senso unico. Ora si dice esplicitamente orgoglioso di essere stato comunista italiano e di non nutrire «alcun rigurgito nostalgico per il comunismo dei gulag e di Pol Pot». Rinnega insomma il comunismo del Pci «schierato per molti anni dalla parte sbagliata, quella dell'Unione Sovietica» e ringrazia perciò coloro che ne determinarono la sconfitta.
Ad animare i Comitati Civici fu Luigi Gedda al cui fianco mi onoro di aver lavorato come direttore di un ufficio un po’ ingenuamente battezzato Psicologico, col compito di provvedere alla propaganda elettorale con gli strumenti allora a disposizione. L’attività elettorale dei Comitati Civici durò per più di tre mesi, dal gennaio all'aprile del 1948. A ripensarla, quell'impresa ebbe del prodigioso, grazie alla eccezionalissima capacità organizzativa di Gedda, cattolico convinto di tutte le stagioni e noto scienziato nel campo della genetica.
Avere oggi, da parte di un politico di talento anche se di contraddittorio impegno, la riprova che il nostro slancio improvvisato ebbe un senso provvidenziale, dà uno spiraglio di luce a questo ultimo capitolo confuso della nostra generazione. Un pericolo tuttavia si presenta puntuale, sottovalutato e ritenuto dai più un espediente elettorale: il comunismo che non riuscì a vincere in Italia mentre dominava nel mondo la temibile potenza dell'Unione Sovietica, minaccia di affermarsi in Italia oggi che l'Urss non c'è più.
Sono i paradossi tipicamente nostri, le anomalie che spesso ci perseguitano. Questa volta a favorire il successo del comunismo potrebbe essere proprio un cattolico, «adulto», come Prodi tanto imbelle quanto bellicoso, il quale, ogni giorno, a passi che lui invano vorrebbe inavvertibili, cerca di ingraziarsi i comunisti di fatto e di nome Bertinotti e Cossutta e persino Pecoraro Scanio.
Senza di loro Prodi ritiene che la sua Unione sarebbe sconfitta e, in caso di vittoria, si illude di poterli controllare, addirittura dominare. Non si accorge di quel che accade oggi in qualche regione, come in Russia al tempo della Rivoluzione di Ottobre, dove coloro, che già lo chiamano compagno, ottenuta una mano si sono presi anche il braccio. Sull'onda della soddisfazione nata dal riconoscimento esplicito di Violante, viene irrefrenabile la voglia di incitare tutti a correre a votare quando sarà e di invitare i cattolici a ritrovare lo slancio di una volta.

Ancora una volta la sorte del Paese è in pericolo e il mito di un comunismo italiano è smascherato dai programmi che affiorano, talvolta a mezza bocca, nella coltre della persistente mancanza di un programma unitario del centrosinistra, sempre più sinistra-centro.

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