Parazzoli, voyage attorno al mio palazzo

«L’evacuazione»: ritorno a casa attraverso una discesa letteraria nella memoria

Più di 2800 pagine in 4 volumi di saggi arricchiti (se la parola è adeguata) da una scelta tematica di fotografie sulla distruzione di un popolo e di una civiltà europea. E poi ancora un volume di documenti pubblici e privati in gran parte inediti, a cui si aggiungeranno, fra un anno, 3 dvd sui processi ai criminali nazisti. Che cosa rappresenta questa Storia della Shoah, monumento cartaceo e visivo unico nel suo genere, sullo sterminio degli ebrei, che l’Utet ha presentato (in due versioni) alla Fiera di Francoforte e porterà il 14 novembre in Campidoglio? Certo un avvenimento editoriale ma anche una sfida.
La “vecchia” casa editrice torinese oggi riunita a un altro editore storico, la De Agostini, deve aver fatto i suoi conti economici quando ha chiesto a 500 specialisti di 30 Paesi di pensare, organizzare e scrivere 70 saggi (sotto la guida di un comitato scientifico che comprende firme come Saul Friedlander, Philippe Burrin, Enzo Traverso, Simon Levi Sullam, Marcello Flores e Marina Cattaruzza) su uno dei soggetti più pubblicizzati - e controversi - della storia moderna. Ma perché - mi chiedo - lancia quest’opera in italiano su un mercato linguisticamente ed ebraicamente limitato? E perché impegnarsi su un argomento di cui, come scrisse Primo Levi, i morti non possono più parlare, i sopravvissuti non vogliono o non sono capaci spesso di parlare e coloro (come me) che non sono stati lambiti dagli orrori dell’Olocausto o appartengono a generazioni post-Shoah sono incapaci di immaginare o (nei casi più vili e peggiori) di ammettere?
La ragione mi sembra rivelata dai tre sottotitoli di questa «storia» che trattano di tre argomenti uniti, appunto dalla storia, ma differenti fra di loro e significativi per un “mercato” enorme, che non è quello economico ma il mercato delle idee e della coscienza civili.
Il primo sottotitolo, «La crisi dell’Europa», ha poco a che vedere con gli ebrei anche se essi rappresentano la cartina di tornasole della crisi europea. Crisi che non può essere misurata solo sul fiume di sangue, sulle montagne di orgogliosa stupidità politica e sociale, sulla violenza delle onde di crudeltà che hanno accompagnato il suicidio dell’Europa nella prima guerra mondiale (in cui il prezzo pagato dai 12 milioni di ebrei fu “solo” di quasi 100mila morti in battaglia, pogrom, espulsioni, violenze ecc.). Tuttavia in questa crisi e negli anni della Belle Epoque che la precedono, l’Europa incomincia a perdere la legittimità morale di guida della civiltà col crescente divario fra la società di diritto (libertà, uguaglianza, fratellanza) nata dalla Rivoluzione francese e la società reale (nazionalismo, colonialismo e antisemitismo) di cui si fa protagonista. In questa fase di crisi gli ebrei erano più esposti di altri gruppi umani perché, come scrive Amos Oz, erano più europei del resto degli europei. In questo senso rappresentavano il «termometro» più sensibile e fragile della malattia dell’anima europea, perché indifesi nel testimoniare con la loro presenza il tradimento degli ideali dell’Europa e del suo neo paganesimo. Fu stupidamente logico, per chi temeva di diagnosticare questa malattia, distruggere il «termometro» come cura magica del male.
Ne conosciamo le conseguenze. Ma ce lo ricordiamo? Ovviamente gli ebrei sì, e lo fanno con un’insistenza ossessiva che diventa così irritante per molti da spingerli a sostenere che la Shoah non è mai veramente esistita, che si tratta di una delle tante stragi di cui è piena la storia, di una «fabbrica di menzogne» montata degli ebrei per spillare quattrini alle «buone coscienze», per giustificare l’oppressione degli israeliani sui palestinesi. Si tratta soprattutto di mascherare l’opera di quei «Saggi di Sion» che attraverso i 12 milioni di ebrei superstiti - uomini, donne, bambini, vecchi, poveri e idioti - riescono a tenere soggiogati (secondo il famoso libello dei Protocolli continuamente ripubblicato in arabo, russo, francese, inglese, malese, e diffuso dalle tv islamiche) i 6 miliardi della popolazione del globo. Mai c’è stata una maggior violazione del buon senso e una più grande menzogna mediatica.
Contro di essa mi sembra che la Storia della Shoah della Utet abbia deciso di entrare donchisciottescamente in guerra. Perché donchisciottescamente? Anzitutto perché lo fa in italiano, una lingua editorialmente poco diffusa. Poi perché pubblica questa enorme opera in un Paese dove l’antisemitismo - passato e presente - si rivela meno crudele che altrove e il numero di lettori direttamente interessati - gli israeliti - rappresentano una delle più minuscole comunità della diaspora. Ma raccoglie una sfida e si lancia in un’avventura editoriale non piccola - così mi sembra - perché ha capito quello che molti politici, storici, comunicatori, sembrano aver difficoltà o paura di comprendere: cioè che la Shoah è un fenomeno unico in quanto - diversamente da tutti gli altri genocidi - rappresenta, per la prima volta nella Storia, il tentativo programmato a freddo e scientificamente eseguito, della soppressione di un popolo per quello che esso è, non per quello che i suoi membri fanno o non fanno.


Con questa Storia mi sembra che l’Utet voglia ricordare a tutti - a un immenso “mercato” di sanità mentale, pedagogico, politico, biologico, mediatico, virtuale - il pericolo mortale per l’uomo e per la donna di essere giudicati, corretti, «migliorati», modificati da ciò che essi sono: l’immagine, tragica, eroica - così faticosa da portare per la «bestia umana» - del divino.

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