Si è allargata non soltanto nelle intenzioni la coalizione internazionale a guida americana contro l'avanzata dello Stato islamico in Siria e Irak. Per la prima volta, un secondo Paese ieri ha bombardato postazioni degli estremisti. I jet Rafale dell'aviazione francese hanno colpito un «deposito logistico dei terroristi», ha fatto sapere François Hollande, ospite pochi giorni fa a Parigi di una conferenza sulla crisi. Il presidente francese ha dichiarato che nei prossimi giorni ci saranno altri raid simili, mentre dal nord dell'Irak il leader curdo Masoud Barzani chiede l'intervento internazionale per bloccare i progressi militari del gruppo jihadista che minaccia in queste ore la cittadina curda siriana di Kobani. L'azione militare della coalizione non è soltanto richiesta dalla leadership politica irachena, ma anche approvata da quella religiosa, se proprio ieri la più significativa autorità religiosa sciita nel Paese, il Grande ayatollah Ali Al Sistani, ha detto nel suo sermone nel venerdì di preghiera islamica che «all'Irak occorre l'aiuto straniero».
Ad appoggiare più direttamente la recente azione di Parigi è stato il capo dello Stato maggiore congiunto degli Stati Uniti, il generale Martin Dempsey, ieri in visita con la leadership militare francese agli antichi campi di battaglia della Normandia. Dopo aver lodato i francesi - «i nostri primi alleati» - il generale ha spiegato che la Francia, come l'America, non condurrà operazioni nei cieli della Siria, e si limiterà a raid aerei. Negli Stati Uniti però si dibatte in queste ore sugli eventuali sviluppi del coinvolgimento americano. Le parole pronunciate martedì dal generale Dempsey fanno temere che possano esistere divergenze tra leadership politica e militare. Da quando sono iniziati i raid aerei americani sull'Irak ad agosto, il presidente Barack Obama sostiene con fermezza che non esiste possibilità di un ritorno delle truppe di terra degli Stati Uniti nel Paese, da cui l'esercito americano si è ritirato alla fine del 2011. Il capo dello Stato maggiore congiunto, davanti ai senatori, ha aperto però all'eventualità. Sul campo in Irak, oggi, ci sono 1.600 uomini di personale militare americano. Svolgono funzioni di consiglieri presso l'esercito iracheno: «Se arrivo al punto di ritenere che i nostri consiglieri debbano accompagnare le truppe irachene in attacchi verso obiettivi specifici, lo raccomanderò al presidente», ha detto martedì Dempsey. Il generale dei marines James Mattis, fino all'anno scorso in servizio, ha dichiarato giovedì, sempre davanti ai senatori che hanno poi approvato al voto la strategia di Obama contro lo Stato islamico, che rassicurare «i nostri nemici in anticipo sul fatto che non vedranno truppe americane» non sarebbe tattica da utilizzare. Sia Obama sia il suo segretario di Stato John Kerry mercoledì e giovedì sono tornati ad assicurare al pubblico che i soldati americani non rimetteranno piede in Irak. E se il ministro della Difesa Chuck Hagel ha cercato di minimizzare, parlando alla Camera di «allineamento completo» tra vertici politici e militari, sia il New York Times sia il Washington Post in queste ore hanno non soltanto rilevato le divergenze, ma ricordato come non siano una novità dei due mandati di Obama. Nel 2009, il presidente, eletto con la promessa di portare a casa le truppe dai teatri di guerra, ha ceduto alle pressioni dei generali per inviare più soldati in Afghanistan. A fine 2011, sarebbero stati i militari a non insistere nel lasciare un contingente sul campo in Irak dopo il ritiro di fine anno.
Nell'autunno del 2013, una parte del Pentagono sarebbe stata invece scettica davanti alla volontà di Casa Bianca e Dipartimento di Stato di raid - poi mai avvenuti - contro obiettivi del regime di Bashar El Assad dopo le rivelazioni sull'utilizzo da parte di Damasco di armi chimiche contro i civili.Twitter: @rollascolari
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