Era destino: il primo serio grattacapo internazionale del Governo Monti doveva venire proprio dal terreno a lui più congeniale, vale a dire quello delle tasse.
In Europa infatti sta salendo il livello dello scontro attorno all’introduzione della cosiddetta “Tobin tax”, un’imposta sulle transazioni finanziarie che deve il suo nome dall’economista premio Nobel James Tobin, che la teorizzò all’inizio degli anni ’70.
In pratica si tratterebbe di una tassa di modesto importo ma applicabile ad ogni compravendita: scatterebbe a ogni operazione di mercato e si applicherebbe al semplice cambio tra valute, alle materie prime sino al più complesso dei prodotti derivati.
L’intento ideale della tassa sarebbe di limitare la speculazione finanziaria, rendendo meno convenienti le compravendite di breve periodo: infatti se compro un titolo e lo tengo «nel cassetto» per anni il peso della “Tobin tax” sarà minimo, mentre se ogni giorno compro e vendo molte volte per cercare di approfittare degli spostamenti di mercato l’onere della tassa, che scatterebbe ogni volta come un tassametro, diverrebbe pesantissimo.
Il più deciso a volere l’imposta è il presidente francese Sarkozy, che ha annunciato l’intenzione di procedere unilateralmente alla sua introduzione anche in caso di disaccordo dei partner europei. La Germania esita e il premier inglese Cameron ha detto chiaro e tondo che non si sogna neppure di imporre la tassa.
E qui nasce il dilemma di Monti, finora tutto teso a cercare accordi globali caratterizzati da quell’unanimità ideale, presupposto per formule vuote e di efficacia nulla, che era alla base della formulazione idealista (e fallimentare) dell’Europa Unita.
Niente meglio della Tobin Tax può infatti far cadere i paraventi di buone intenzioni con cui si intessono gli inconcludenti summit europei per rivelare quello che di inconfessabile c’è dietro ad ognuno di essi, vale a dire il solito vecchio interesse nazionale, sempre dimenticato dall’Italia, abituata a subire ogni decisione confidando in qualche scappatoia in extremis ed invece sempre perseguito con spietata ferocia dai finti amici dell’Europa.
Il discorso è molto semplice: un’imposta del genere può funzionare solo se applicata da tutti perché, se ci fossero delle piazze finanziarie esentate dall’imposta, i mercati finanziari (che sono immateriali ed elettronici, come Internet) si sposterebbero semplicemente dove non ci sono restrizioni. E qual è la più grande piazza di scambio europea? Guarda caso proprio quella di Londra, su cui governa proprio quel James Cameron contrario alla Tobin Tax e frettolosamente lasciato fuori dall’accordo europeo dell’ultimo supervertice.
Altra piccola casualità: chi possiede la maggioranza del capitale della Borsa Italiana? Sempre guarda caso si tratta del London Stock Exchange, che sovraintende alla maggioranza degli scambi che si effettuano a Londra. Da qui si dovrebbe cominciare a capire bene l’entità del pasticcio: Merkel e Sarkozy non hanno esitato a lasciare fuori l’Inghilterra pensando di avere mano più libera nelle loro decisioni (finora sballate) contando di avere in Monti un ubbidiente alleato, peccato però che alla prima decisione importante il peso degli esclusi ritorni prepotentemente a galla.
Infatti pensare che il Regno Unito (che, al contrario di noi ha sempre avuto ben presenti i propri interessi) si castri da solo piegandosi alla febbre fiscale franco-tedesca è utopia pura, dato che in caso di introduzione della tassa l’onere maggiore spetterebbe ovviamente a Londra, e per favorire chi? Quegli stessi che non hanno avuto esitazioni ad estromettere David Cameron a dicembre? Figuriamoci.
Ed è a questo punto, quando i padroni cominciano a volere cose diverse, che l’Arlecchino italiano rischia di andare in affanno, anche se, probabilmente, seguendo l’istinto è possibile che Monti riuscirà a prendere la decisione sbagliata e ad accodarsi con chi tassa di più.
A quel punto non parrà vero alla Borsa di Londra di poter accentrare gli scambi richiamando nella City la controllata italiana. È quindi possibile che per gli uffici finanziari di Milano sarà tempo di nuovi traslochi.
Già per colpa delle nostre tasse siamo riusciti a far trasferire l’industria del risparmio a Dublino e a Lugano. I prossimi a dire addio potrebbero essere gli operatori di mercato.
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