Perché chi ha vinto lo "Strega" vale meno di chi lo ha perso?

Gli uomini si dividono in due categorie, quelli ai quali un titolo come La solitudine dei numeri primi strappa un battito del cuore in più e quelli che lo trovano comico

Perché chi ha vinto lo "Strega" vale meno di chi lo ha perso?
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Gli uomini si dividono in due categorie, quelli ai quali un titolo come La solitudine dei numeri primi strappa un battito del cuore in più e quelli che lo trovano comico. E tuttavia fra il «sentire» che un romanzo è solo un inganno e spiegare perché di truffa si tratti, passa la distanza che separa il semplice lettore dal critico letterario.

Balzato all'onore delle cronache con La letteratura circostante (Il Mulino, 2018) un saggio molto discusso che aveva l'ambizione di operare una ricognizione dei romanzi che non finiscono nelle storie della letteratura, ma in quelle della sociologia sì, Gianluigi Simonetti insegna all'Università di Losanna. Gli storici assicurano che in Svizzera, alla fine del Cinquecento, vi sia stato il picco europeo di roghi di streghe, per cui sembra naturale che ad essere preso di mira nel suo nuovo saggio (Caccia allo Strega. Anatomia di un premio letterario, Nottetempo, pagg. 184, euro 17) sia adesso il premio letterario per eccellenza. Il premio Strega è un'Idra dalle molte teste. Il candidato ideale deve incontrare i gusti degli «Amici della domenica», nome democristiano di un gruppo di potere «a sinistra» e precisamente liberalsocialista. Osservare che da mezzo secolo il medesimo gruppo monopolizza il potere culturale è un'ovvietà, e infatti il premio è stato spesso al centro delle polemiche più aspre. Quando il massimo linguista italiano, Tullio de Mauro, ne prese le redini lo scandalo per i meccanismi del premio, totalmente opachi sebbene noti a qualunque giornalista culturale, avevano raggiunto il colmo. Nell'occhio del ciclone, De Mauro promise che sarebbe corso ai ripari e in effetti nelle edizioni successive vi fu un innalzamento della «rispettabilità» del vincitore, assegnato a figure dall'innegabile statura intellettuale come Walter Siti e Emanuele Trevi.

Resta inteso, però, che il great game deve giocarsi sul piano letterario, ed è qui che Caccia allo Strega dà il meglio di sé. Venendo al punto: perché i romanzi che hanno vinto il premio valgono meno di quelli che l'hanno perso? Ecco, allora, lucidamente enucleati, il «pasolinismo d'accatto» della Mazzantini, la «piallatura formale» di Scurati («Se nelle Benevole Littel guarda al metodo mitico modernista, e ad Eschilo e Grossman, Scurati sembra ispirarsi principalmente a Game of the Thrones»), il «sadomasochismo soft» della Postorino (in trasferta al Campiello, ma pronta a trionfare anche a Roma, nel Ninfeo più ambito dagli scrittori italiani).

In coda al volume giunge anche una formula seducente, quella della «letteratura ancipite», dimostrata in analisi mai ipercritiche e corredata da esempi testuali inoppugnabili. «I libri premiati - scrive Simonetti - hanno in comune la volontà di giocare la partita su due livelli: la presunta qualità artistica, evocata attraverso una mobilitazione stilistica decifrabile come letteraria; e l'intrattenimento, la leggibilità».

Guai ad osservare che in questo caso tutti i romanzi sono ancipiti, da Balzac in su, e che se non lo fossero non si potrebbero leggere «come un romanzo»: tali «formazioni stilistiche di compromesso», infatti, fanno subito una vittima. Simonetti, con semplicità, la chiama «la bellezza».

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