La prima reazione all’evasione fiscale da 246 milioni
commessa da Unicredit e dal suo ex leader Alessandro Profumo è, per
dirla con il gergo di questi tempi, di indignazione. Ma come, l’uomo
nuovo che vorrebbe mettere a disposizione dell’Italia le sue
competenze economiche viene beccato con il sorcio in bocca? Aveva costruito un castelletto
finanziario grazie al quale si portava a casa un bel risparmio
fiscale. Per di più lo faceva in una banca che viaggiava a botte di
tre-quattro miliardi di utili l’anno. Insomma,poteva farne a
meno. Dentro c’ètutto ciò che i benpensanti di queste ore odiano:
finanza, lire turche, controparti lussemburghesi, operazioni
derivate, elusioni, documenti segreti vergati a mano. Se a Profumo si
riservasse, come dice il Foglio , un trattamento Verdini sarebbe cotto
a puntino. Si potrebbe plasticamente dire che Brontos, il nome in
gergo dell’operazione messa in piedi da Unicredit per pagare meno tasse,
è il drago contro il quale gli indignati, così ben compresi proprio dal
mondo che coccola i vari Profumo, hanno manifestato in tanti a Roma
sabato scorso.
Ma la zuppa ha intenzione di difendere
l’indifendibile Profumo. Non tanto per il manager (ha tanti di quei
milioni da parte e tanti di quei salottini che contano dalla sua, che
può ben fregarsene delle nostre spezie), ma per il principio. Un
magistrato molto attento come il procuratore aggiunto di Milano
Alfredo Robledo, ha infatti accusato Profumo di truffa ai danni dello
Stato.Insomma,ha alzato l’asticella dell’accusa: da un possibile
delitto tributario ad un reato. Roba grossa, per la quale si va in
galera. Cerchiamo di semplificare. Il principio, a nostro avviso
micidiale, per il quale Profumo rischia la galera è il cosiddetto abuso
del diritto. In buona sostanza il giudice ( grazie ad un
orientamento ormai consolidato della Cassazione) potrebbe punire, pur
in assenza della violazione di una singola norma, un comportamento volto
solo a creare un’agevolazione fiscale senza alcuna ratio patrimoniale.
Unicredit e Profumo sapevano che un certo investimento per loro
aveva solo una finalità di ottimizzazione fiscale e nessun’altra
motivazione. Si tratta di una rottura fenomenale in uno stato di
diritto. Io non violo alcuna norma, ma siccome, sostanzialmente,
risparmio sul fisco, sono nei guai. È il giustizialismo tributario
all’ennesima potenza. È figlio di quella cultura che per strada grida:
«Intercettateci tutti, non abbiamo nulla da nascondere». È la degna
conclusione di quella filosofia colpevolista (che anche questo governo
ha alimentato nel contrasto all’evasione) per cui sono stati
rispolverati i principi medievali del solve et repete e dell’inversione
dell’onere della prova. Non si può non difendere Profumo se si ha a
cuore uno stato di diritto. Sia ben chiaro: se la magistratura dovesse
accertare la manomissione di documenti o prove (cosa che al momento non
risulta e che però giustificherebbe l’accusa di truffa)il discorso
sarebbe del tutto diverso. Ma da ciò che è dato sapere ci troviamo in
un caso molto simile a quello affrontato da Dolce&Gabbana,
proprio con la Procura di Milano (di cui la zuppa si occupò sei mesi
fa). I due ricchi ragazzi erano accusati di truffa per una questione
fiscale riguardante royalties pagate all’estero. Accusa pesantissima
anch’essa. Ma il gup, Simone Luerti, liberò tutti considerando lecito
il diritto di un’impresa di trovare il suo maggior beneficio fiscale.
In quell’occasione Luerti disse qualcosa di più, e cioè che l’accusa
aveva usato le tesi dell’Agenzia delle entrate come componente
fondante del procedimento. Agenzia delle entrate che Luerti considera,
implicitamente, in conflitto di interesse, poiché parte in causa.
Ebbene, su questo profilo Robledo è stato molto più accorto. Per
smontare l’operazione non si è avvalso dell’Agenzia, ma di tecnici
considerati molto competenti. Una freccia in più al suo arco.
La
difesa di Profumo è la difesa delle nostre imprese.
Come correttamente
notava Andrea Bassi ieri su Mf : «Applicare sanzioni penali comporta
un rischio mortale per le imprese: quello del sequestro per
equivalente (nel caso Unicredit 246 milioni subito requisiti dai conti
della banca). Anche considerando il fatto che la misura del
sequestro per equivalente, a differenza delle misure cautelari
personali, non ha scadenza ma segue i tempi della giustizia».
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