Pericolo trombosi nella metà delle protesi ossee

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Ignazio Mormino

La fragilità dell’anziano interessa tutte le aree della Medicina. L’ortopedia è tra queste, perché la perdita di tessuto osseo è massiccia, nella terza età, e perché - più dei giovani - gli anziani sono vittime dei traumi. Le loro ossa si spezzano anche in occasione di semplici cadute. L’osteoporosi, poi, provoca molte fratture del femore e delle vertebre.
Il congresso nazionale degli ortopedici e traumatologi ospedalieri italiani (che si svolge in questi giorni a Stresa, in collaborazione scientifica con Sigma-Tau) fotografa non soltanto la fragilità degli anziani ma anche i rischi - questi sì poco noti - cui essi vanno incontro quando il chirurgo ortopedico li opera all’anca, al ginocchio, alla tibia e al perone. I presidenti del congresso, Eugenio Boux ed Alberto Peveraro, hanno affidato al professor Giuliano Lo Pinto, che dirige il Dipartimento di Medicina dell’ospedale Galliera di Genova, il compito di illustrare tali rischi.
Lo Pinto ha presentato ieri la sua relazione («La profilassi del trombo-embolismo venoso nella chirurgia del femore e del ginocchio») ed oggi ne parla con noi, partendo da una prima, allarmante dichiarazione: la trombosi venosa profonda che consegue alla protesi dell’anca e del ginocchio non è una rarità. È presente in almeno la metà dei casi e in un caso su cinquecento può diventare mortale.
Questo non significa che bisogna evitare le protesi ma, al contrario, che bisogna affrontarle con una seria profilassi, specialmente quando il soggetto che vi si sottopone è obeso, cardiopatico, diabetico ed ha avuto in passato altri episodi trombotici; ma anche i soggetti dichiarati «sani» possono subire una trombosi venosa profonda dagli esiti imprevedibili.
Il professor Lo Pinto, che da oltre vent’anni studia i problemi della coagulazione del sangue, sostiene che questo congresso, onorato dalla presenza dei più famosi ortopedici italiani (il professor Antonio Croce del «Gaetano Pini» di Milano ha parlato delle riprotesizzazioni plurime; altri primari di protesi discali e di chirurgia mininvasiva) confermerà il ruolo della profilassi, che non azzera l’evento trombotico ma lo limita notevolmente, in almeno 60 casi su cento.
«Oggi - dice - disponiamo di eparine a basso peso molecolare di nuova generazione, capaci di ridurre la formazione dei trombi. Possiamo impiegarle prima dell’intervento chirurgico o dopo qualche ora. Dai ricercatori americani viene la raccomandazione di somministrare queste eparine dopo l’atto chirurgico; in Italia invece si preferisce farlo prima; ma in entrambe le ipotesi il risultato è assicurato. Avanza, inoltre, la ricerca di alterazioni cromosomiche che favoriscono gli eventi trombotici anche nei soggetti giovani».
Giuliano Lo Pinto e i suoi collaboratori stanno svolgendo uno studio epidemiologico sulla trombosi in Liguria. Nel dicembre 2006, quando lo studio sarà ultimato, avranno catalogato tremila pazienti, seguiti per almeno due anni, e stabilito quali sono - in quella regione - i soggetti più vulnerabili, su base familiare e su base genetica. Tutti i pazienti che partecipano allo studio hanno meno di sessantacinque anni.
Perché tanta attenzione verso la trombosi? Perché la presenza di un trombo (coagulo di sangue che si forma all’interno di un vaso arterioso venoso, limitando e qualche volta impedendo il passaggio del sangue) può provocare conseguenze temibili come l’infarto miocardico o l’ictus cerebrale.


Secondo i cardiologi che studiano i problemi della circolazione la Medicina deve orientarsi in particolare sulla prevenzione dei fattori di rischio che sono in particolare l’ipertensione, l’obesità, l’eccesso di colesterolo, la sedentarietà. Questi interventi diventano indispensabili in quei soggetti che hanno avuto parenti di primo grado colpiti da eventi ischemici o da patologie cardiocircolatorie.

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