Roma - «Ci si aspettava che Fini esibisse la prova che la proprietà non è di Tulliani ma questa prova non è stata data». Nella consueta «omelia laica» domenicale il fondatore di Repubblica , Eugenio Scalfari, ha sostanzialmente «scaricato» l’astro nascente dell’antiberlusconismo militante. L’imputazione, scrive l’ex direttore, è grave: «Alle parole avrebbero dovuto seguire i fatti e cioè la netta separazione tra lui e la famiglia Tulliani».
Insomma, una volta presentata la dichiarazione di guerra al Cavaliere, l’etica avrebbe preteso qualsiasi tipo di sacrificio personale, anche quello degli affetti. Cosa che il presidente della Camera non ha fatto. «La responsabilità istituzionale avrebbe dovuto far premio su ogni altra considerazione anche a costo di mettere in gioco un assetto privato molto delicato », ha aggiunto Scalfari sottolineando che «sarà quindi difficile che Gianfranco Fini resista a lungo in una posizione di evidente difficoltà».
Il risentimento di largo Fochetti è comunque comprensibile: su Gianfranco Fini il quotidiano aveva effettuato un cospicuo investimento «politico» e, dopo il videomessaggio di sabato, appare evidente che le speranze sono state mal riposte se anche Scalfari non ha taciuto che «la risposta di Fini è comunque tardiva, poteva e doveva arrivare molto prima, subito dopo le notizie pubblicate dal Giornale ». Solo Giuseppe D’Avanzo con un’altra articolessa cerca di stemperare un po’ i toni, ma anche questo è comprensibile: il noto cronista giudiziario ha speso parte della propria credibilità per sostenere quelle tesi finiane sul complotto, sul dossieraggio, sull’estraneità di Tulliani che lo stesso Fini ha rimesso in discussione. Non meno leggero è stato il Corriere della Sera .
Un editoriale di Pierluigi Battista ha rilevato, con opportuna moderazione, che da sabato «tutta la politica italiana ruota tutta attorno alla parola di un signore che si chiama Giancarlo Tulliani». Certo, il presidente della Camera «è convinto di non aver agito in modo illecito se non illegale », «è apparso in buona fede » e «si è formalmente scusato» con i responsabili dei Servizi, Gianni Letta e Gianni De Gennaro. Ma la sua «ingenuità politica » comporta il pagamento di «un prezzo troppo salato per l’intera comunità nazionale»: l’aver racchiuso la «stabilità politica» in un interrogativo che riguarda Giancarlo Tulliani. Il Corriere non si è sbilanciato come Repubblica nelle scorse settimane, ma le osservazioni di Battista evocano quanto meno una perplessità a posteriori sull’opportunità dell’equidistanza di via Solferino. Problemi che non si sono posti né la Stampa né il Messaggero.
Quest’ultimo, anzi, interpreta le parole finiane come un appello alla riconciliazione. L’editoriale domenicale di Barbara Spinelli sul quotidiano torinese, invece, attacca Fini per aver solo cercato «un baratto» con Silvio Berlusconi. Toni apocalittici che nemmeno Il manifesto ieri ha utilizzato riversando una serie di interrogativi verso quella sinistra che sperava in un salvatore della patria. « Non sa di società offshore . Se qualcuno l’ha fregato, è stato il cognato. È uno come noi? È di un’altra pasta? È un Berlinguer 2.0? Comprereste una casa usata da quest’uomo? Boh», ha scritto Alberto Piccinini. L’analisi più lucida, alla fine, è quella di Stefano Folli sul Sole24Ore .
«L’intervento appare tardivo e debole ». Tardivo perché «è evidente la corrosione del quadro generale » e debole perché «Fini non ha proposto argomenti nuovi (o documenti inoppugnabili) per sciogliere il rebus in un senso o nell’altro ».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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