
Strana data quella del 28 aprile. Divisiva quanto il 25 aprile, come poche altre accomuna in sé diversi e importanti destini, in un Paese che dimentica sempre troppo in fretta. Nel 1932 avviene lo storico incontro tra Tazio Nuvolari e Gabriele d’Annunzio al Vittoriale degli Italiani, in cui il Vate dona al Mantovano Volante una piccola tartaruga portafortuna mentre, cinque anni dopo, si inaugura Cinecittà. E mentre nello stesso giorno del quasi dimenticato 1876 vede la luce l’uomo che poi darà il suo nome all’A.L.F.A. di Milano, sessantanove anni dopo, per odio più che per giustizia, vengono assassinate due importanti figure del nostro Paese: Benito Mussolini e Ugo Gobbato. E se il primo non ha certo bisogno di presentazioni, per parlare degli accadimenti che coinvolgono l’ingegnere di Volpago del Montello va fatto un leggero balzo temporale. Lo scoppio della Seconda guerra mondiale porta infatti alla revisione dell’attività di molti settori di fabbrica, obbligate a una ‘riconversione alla causa’ dettata da quell’infausto periodo storico che catapulta l’Europa in un conflitto armato violento e totalizzante.
Solo pochi anni prima, infatti, nel 1932, l’Istituto per la Ricostruzione Industriale acquisisce anche l’Alfa Romeo e, a novembre dell’anno seguente, vi pone al vertice Ugo Gobbato, talentuoso dirigente proveniente dalla Fiat di Torino, la cui nomina strappa il posto a quella dell’ingegner Corrado Orazi.
Gobbato non è un uomo di regime, piuttosto - come tanti notabili dell’epoca - è un nazionalista, una di quelle figure che, già al fronte, si è guadagnato incarichi organizzativi, piuttosto che di trincea. La benevolenza espressa dai superiori è un riconoscimento che, nel proseguo della vita, gli viene riconosciuto da più parti, persino dalla Fiat che, dopo una prolungata e proficua collaborazione, si convince di avere nell’ex dirigente una figura amica da parteggiare nella rincorsa alla guida della più importante fabbrica milanese.
Sa porsi. Frequenta i reparti, parla con le maestranze, si confronta e valuta con i suoi occhi il funzionamento delle macchine, riconosce i problemi, come le eccellenze e le carenze della produzione. Incontra tutti, dall’operaio neoassunto al capo turno, dai quadri ai tecnici e tutti lo ritengono un dirigente capace. Riesce persino a mantenere la carica di Direttore Generale dopo quel fatidico 8 settembre del ‘43 quando, durante l’occupazione nazista, viene immotivatamente tacciato di collaborazionismo con il regime tedesco. Ma è una fase critica, quella dell’immediato dopoguerra. Sebbene in tanti sostengano che si sia adoperato per impedire che materiali, macchinari e soprattutto uomini vengano deportati in Germania, viene sollevato dai suoi incarichi dal Comitato di liberazione nazionale e condotto davanti al giudizio di quegli improvvisati tribunali che sempre più vanno diffondendosi in un Paese ormai allo sbando. Il primo di questi è uno speciale Tribunale del popolo allestito all’interno della fabbrica stessa, dove le accuse dei principali testi si rivelano presto infondate grazie alla testimonianza di tantissimi altri operai. Successivamente, il 27 aprile 1945, viene condotto a Villa Trieste dinanzi a un altro di questi tribunali – questa volta estraneo alla fabbrica – dove, a muovere le accuse, sono solo Antonio Mutti e Gastone Mattarello, nuovamente due operai dell’Alfa Romeo.
L’innocenza di Gobbato, però, è talmente evidente che lo stesso presidente del Tribunale giudicante, dopo il proscioglimento dalle accuse, si offre di riaccompagnarlo a lavoro. Sembra tutto finito e invece, alle nove e mezzo del mattino seguente, mentre a piedi fa ritorno a casa dopo aver prelevato dei documenti dal suo ufficio, all’altezza di via Duilio angolo ex via Dondossola, viene avvicinato da tre uomini a bordo di una piccola vettura di colore scuro (sembrerebbe una Lancia Aprilia blu utilizzata dai nuclei partigiani dello stabilimento). Gobbato li riconosce e li saluta, pare, pochi istanti prima di cadere esanime al suolo sotto i colpi di una fulminea scarica di mitra. Giustiziato con un ultimo colpo di pistola, il suo corpo viene vilmente depredato di tutto (orologio, penna e gemelli d'oro regalati dalla moglie) e ritrovato alcuni giorni dopo solo grazie all’interessamento di un amico di famiglia.
A sparare sarebbe stato uno degli operai che il giorno prima ha testimoniato contro di lui - Antonio Mutti - non pago dell’assoluzione decretata e, molto più probabilmente - come in molti poi confermeranno - con vicissitudini personali da rivendicare legate ad una pregressa esperienza lavorativa al fronte russo, per conto della Fiat. All’omicidio segue un’inchiesta e la Giustizia – questa volta quella vera - chiamata a esprimersi in merito, illuminerà la figura del dirigente per competenza e coraggio straordinari. Purtroppo, essendo giudicato un delitto determinato da motivazioni politiche, l’istruttoria meneghina viene archiviata definitivamente con un “non doversi procedere” che giunge irrevocabilmente il 13 luglio 1960 con la sentenza del giudice istruttore, dott. Antonio Catalano, in virtù dell’amnistia concessa dal D.P.R. nr. 460 del 11 luglio 1959 e la conseguente estinzione del reato: una clemenza che ancora oggi lascia sconcertati e, nel contempo, abbandona nell’impunità quel vile omicidio.
Durante la guerra, nonostante la scomoda posizione rivestita, Gobbato riesce ad impedire ai tedeschi di trasferire l'Alfa Romeo - o parti di essa - in Germania, salvando più volte dall'arresto e dalla deportazione anche operai dichiaratamente antifascisti, rischiando molto anche dal punto di vista personale.
Quel 28 aprile 1945, però, non riesce a salvare sé stesso dal rancore e dalla sete di vendetta: a nulla serve il bene profuso, quel suo ruolo lo ha esposto e questo, oltre a privare l’azienda di un dirigente dalle grandi intuizioni, gli è fatale. A ottant’anni dalla scomparsa, a ricordarlo, resta solo una targa, apposta proprio lì, dove è stato vilmente assassinato.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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