Più americani morti in Irak che l’11 settembre

da Washington

La lancetta si è fermata solo un attimo su una cifra di un conteggio pluriquotidiano e annoso: il numero dei caduti americani in Irak ha superato quello delle vittime delle stragi terroristiche dell’11 settembre 2001 fra New York, Washington e il campo della Pennsylvania in cui si disintegrò con i suoi passeggeri il quarto aereo sequestrato da Al Qaida. Duemilanovecentosettantatré morirono allora, 2.978 sono caduti in Mesopotamia, gli ultimi in un solo scontro che ha portato così al «sorpasso».
Dal punto di vista militare queste cifre non hanno alcun significato. Su quello politico, ed emotivo, ne hanno tanto, soprattutto in un momento in cui la guerra tocca i massimi di impopolarità, il prestigio di Bush i minimi e si avvicina il momento in cui la Casa Bianca dovrà prendere una decisione, che forse si potrà riassumere in un «lascia» o «raddoppia». Cominciare il ritiro del contingente dall’Irak, oppure inviare rinforzi: non per prolungare la presenza, ma per intensificarla a breve o a medio termine. Bush sembra preferire questa seconda opzione, ma ha a che fare non soltanto con le obiezioni dei militari, ma anche col fatto che le truppe di terra Usa sono già «over extended», sparpagliate al limite della capacità di mantenere riserve.
Problema allo studio, per cui sono state avanzate negli ultimi giorni alcune soluzioni. La prima dal presidente in persona: un aumento complessivo dell’organico dell’esercito e dei marines, a prescindere da un loro impiego o meno a Bagdad e dintorni. La seconda viene dal Pentagono e gode di un certo appoggio in Congresso, nonostante sia la più radicale: la reintroduzione negli Stati Uniti del servizio militare obbligatorio, che è in vigore soltanto in tempi di guerra o di emergenza e che è stato abolito l’ultima volta dal presidente Nixon negli anni Settanta, al culmine dell’impopolarità per un’altra guerra in terre lontane, quella in Vietnam. Da allora vengono condotti ogni tanto dei test per verificare se il sistema è bene oliato. L’ultima volta fu nel 1998, in tempi felici.
Adesso c’è un’urgenza e gli «esercizi» avranno per scopo di controllare lo stato di preparazione delle truppe. Un portavoce del Pentagono ha precisato che per ora non è una procedura di emergenza: «È come con un estintore: non stiamo premendo il bottone, ma lo mettiamo a portata di mano sulla parete». Alla fine il giudizio sarà politico. Le pressioni per rispolverare la leva, per un paradosso solo apparente, vengono soprattutto da sinistra. Un deputato democratico di New York, Charles Rangel, ha presentato già da alcuni mesi un disegno di legge in questo senso. Egli sostiene che «è più facile intraprendere una guerra quando a farla ci vanno solo in pochi e gli altri continuano a vivere comodamente. Spargete il rischio su tutti, e vedrete come si diffonde il pacifismo».
Adesso è spuntata l’alternativa: l’istituzione di una Legione Straniera. Vi verrebbero arruolati i giovani, evidentemente di Paesi del Terzo Mondo, che ambiscono alla cittadinanza americana e che se la vedrebbero concedere in premio alla fine del servizio di leva.

È il modello francese della Légion étrangère, ma non è privo di precedenti nella storia americana: durante la Guerra civile buona parte dei soldati nordisti erano immigrati, allora dall’Europa, e soprattutto dalla Germania, che si compravano combattendo il diritto a diventare cittadini Usa.

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