Gli eroinomani ci sono ancora, non sono spariti. Magari non affollano più i giardini pubblici e le periferie cittadine. Spesso hanno moglie, figli, un lavoro, una vita più o meno normale ma fanno di tutto per celarsi allo sguardo di amici, parenti, colleghi e datori di lavoro. Sì, perché quello che non è mai cambiato è lo stigma, la condanna sociale, il dito puntato che nega al tossicodipendente la «dignità» di malato e, con essa, il diritto alle cure. Per combattere questa miopia è nato il Manifesto italiano per la cura delle tossicodipendenze, che afferma la necessità di un modello di cura misto territoriale (una forma di primary care), centrato sull'integrazione tra la rete di centri specialistici pubblici (i SerT), medici di medicina generale e farmacisti. Lo hanno firmato e presentato nei giorni scorsi a Milano, il professor Icro Maremmani, docente di Farmatossicodipendenza all'Università di Pisa, presidente della World Federation for the Treatment of Opioid Dependance (Ong riconosciuta dall'Onu); la Società italiana di medicina generale (Simg); l'Ordine nazionale dei Farmacisti (Fofi) oltre a esperti di varia provenienza. La terapia agonista della dipendenza da oppioidi, anche grazie ai nuovi farmaci, è oggi più gestibile e anche più richiesta e tollerata dai pazienti stessi, che con l'avanzare degli anni di malattia hanno più consapevolezza e voglia di guarire (lo dimostra un'indagine ad hoc di Eurisko presentata nell'occasione). «Purtroppo, mentre nelle altre patologie - spiega Maremmani - la percezione d'essere malati diminuisce con il loro aggravarsi, nella tossicodipendenza è il contrario, ma a quel punto è estremamente difficile tornare indietro».
La proposta, quindi, è quella di un modello integrato di cure, cui i medici di famiglia prestano la propria opera («un salto culturale che dobbiamo fare» sottolinea Ovidio Brignoli, vice presidente Simg), sia contribuendo a far emergere per tempo alcune vulnerabilità (e quindi il sommerso patologico), sia condividendo con gli specialisti il piano terapeutico, magari cominciando con i pazienti più stabilizzati. Il ruolo dei curanti deve essere ripensato, partendo dalla loro formazione, sostiene Maremmani. «I medici non sono preparati per essere accoglienti con i tossicodipendenti. Fin qui l'università ha fallito.
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