Non è ancora finita. Queste elezioni devono ancora cominciare. Ma è una corsa contro il tempo per invertire la tendenza. Quella che si sta giocando ricorda una partita di football americano, i candidati scommettono tutto in poche yard, vincerà chi riuscirà a spingere l’avversario un passo più indietro con un colpo di reni finale. Ogni regione sembra un quadrato di terreno da non perdere. La sfida più incerta è nel Lazio, dove Polverini e Bonino stanno lì a strapparsi gli ultimi voti. Ma anche Piemonte e forse Liguria sono in bilico.
Quello che manca per fare chiarezza sono i voti degli indecisi, dei disillusi, degli ignavi, di chi è disgustato dalla burocrazia dei listini, dalla politica dei Tar, dal teatro dei burattini di «mangiafuoco» Santoro, dalla rissa senza dignità. È da qui che arriva questa incertezza. È da qui che nasce il calo record di votanti. Il sentimento dice che non si possono biasimare, la ragione no. Le urne si chiudono tra poche ore, c’è il tempo per riflettere, c’è tempo per evitare una sconfitta per abbandono. È giusto manifestare la propria delusione, è sbagliato non partecipare a una scelta. Non andare a votare non significa soltanto protestare contro gli errori del governo e i pasticci della maggioranza, non andare a votare significa anche far vincere questa sinistra.
Una sinistra che nell’ultima legislatura ha governato in undici regioni. E non è stata un esempio di buona amministrazione. È la sinistra emiliana dei bancomat regalati alle amanti, con un vice presidente come Delbono che ha conquistato Bologna e poi ha perso tutto per i suoi viaggi a spese del contribuente e altro che ancora non è chiaro. È la transinistra di Marrazzo. È quella degli amici di Vendola, comprati con quattro escort. È la sinistra che puzza di monnezza non raccolta in Campania o quella in provetta della Bresso. Quella litigiosa delle Marche o dell’Umbria. E il mito delle regioni rosse cade sotto i colpi del Carroccio. Quel che resta del Pd segue senza rotta le urla degli avventurieri giacobini.
Continuare a non andare a votare significa dare credito a questi sepolcri imbiancati, all’oligarchia di chi parla di Costituzione e non accetta la democrazia, alla loro antica doppia morale. E soprattutto è un atto di grazia nei confronti di una classe dirigente di piccoli feudatari.
Berlusconi, d’altra parte, non ha governato come sperava. Si è sentito spesso solo, con un partito che non ha ancora digerito la fusione e un cofondatore spesso assente, qualche volta con la scusa di Montecitorio. Il Cavaliere ha subito un assedio quotidiano, l’opposizione tutti i santi giorni ha pensato a una nuova trappola per farlo cadere: il gossip, i pentiti improvvisati, le mosse della procura, il fango sulla ricostruzione in Abruzzo. Non è facile governare sotto guerriglia, eppure l’Italia ha ammortizzato la crisi economica e molti a sinistra sognavano una deriva. C’è stato un terremoto e il governo ha fronteggiato emergenza e ricostruzione. La Lombardia e il Veneto, governate dal Pdl, sono un modello di buona amministrazione.
Tre motivi seri e concreti per andare a votare. Di Pietro e i suoi amici, invece, da due anni si sono inventati un regime per mettere in scena la parodia dell’antifascismo. In un Paese normale li fischierebbero anche a teatro.
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