In pole position i soliti sospetti Ds Ma la base sogna il «Nome Nuovo»

Roma«Chi ha spento la luce?», fece Uòlter ringhiando verso Goffredo Bettini. «Il fatto è - balbettò il malcapitato - che da anni non paghiamo la bolletta». «Se è per questo, è da anni che vagoliamo nel buio», si udì gelida la voce di Massimo. Il giovane di bottega, Enrico, fu inviato a cercare le candele. «Le ho io, a dozzine», annunciò Dario. «I soliti baciapile», commentò Gianni. «Siete i soliti maschi pasticcioni», sbottò Anna. «Io non c’entro», urlò la Rosy da sotto il tavolo, dove giocava a dadi con Sergino e il bimbino nuovo venuto da Firenze. La caciara scosse dal torpore il vecchio Franco: «Mannaggia la Peppina! - s’inquietò -, qualcuno si carichi ’sta croce!». «Non guardate me, per favore», tremò Piero. Fu allora che nonno Franco lanciò in aria la monetina...
A occhio e croce, questa è la situazione e questa l’ultima riunione nello sfogatoio del Pidì, prima di scendere in campo per la partita più importante della stagione. Quella del nuovo segretario. Il problema è che ora, mentre la monetina volteggia, si dovrebbe provare a vederci chiaro: una parola, in un partito nato confuso. Non avendo mai saputo che pesci prendere nei primi due anni di vita, figurarsi ora nella successione al leader «scelto da quattro milioni di elettori alle primarie».
Manca l’amalgama (notò D’Alema), manca la tattica, manca l’allenatore e pure una stella. Tanto che il nome più votato dalle primarie telematiche subito allestite dal sito di Repubblica è una new entry: Nome Nuovo. Non scoraggi l’eccentricità: esiste davvero, in qualche stramaledetto angolo del pianeta. Solo che nessuno del Pd sa dove sia. Sarà l’acquisto sul mercato, il «rinforzo» tanto atteso dai tifosi. Pareva dovesse essere un oriundo proveniente dalla Sardegna, ma non è riuscito neppure a prendere il traghetto. Perciò si guarda al mondo dell’industria, ricordando il brillante esempio di Romano Prodi (qualche entusiasta vede una «staffetta» con Uòlter: lui al Pd, Veltroni in Africa). Qualche prudente sherpa invece è andato a sondare la disponibilità di Luca Cordero di Montezemolo. Ma sarebbe troppo, persino per il Pd, una sfida Berlusconi-Montezemolo.
Considerazioni di questo tipo lanciano «uomini nuovi» di piccolo calibro, giovani e ficcanti come quel Matteo Renzi che ha strabiliato vincendo le primarie a Firenze. È già soprannominato il «Sipòle», ovvero il «si può» sciacquato in Arno (ben lungi dal «yes we can» obamaniano). Si andrebbe di botto alla terza generazione di «leader giovani», senza passare mai dalla seconda. Immaginabile la chiusura a riccio di un partito che non ha fatto crescere abbastanza neppure il brillante sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, e che tiene ben stretto nelle soffitte l’intellettuale del gruppo, Gianni Cuperlo, un dalemiano di sfondamento, e per questo malvisto da gran parte del Pd. Per non parlare del «giovane fatto in casa» (Prodi), Enrico Letta: partito ministro-baby, non è mai arrivato più in là e ora, a 42 anni suonati, comincia a chiedersi se non sia ora di rincasare, verso il Centro di Casini. Ha fluidificato parecchio, negli ultimi tempi, e vanta ottimi rapporti anche con D’Alema. Su di lui pesa però il «fattore G», inteso come zio Gianni, alter ego di Berlusconi. Una sfida tra Letta per Palazzo Chigi, nipote contro zio, sarebbe un incubo per il Pd.
Gira gira la monetina, e intanto sembrano scarse o nulle le possibilità che indichi una «testa nota», a cominciare da quella del regista di mille battaglie (compresa la detronizzazione di Uòlter) Massimo D’Alema. Che si può dire di lui? Per orgoglio tornerebbe a fare il Capitano solo se glielo chiedesse un intero stadio di pidini in ginocchio. Il suo futuro è dietro le spalle: quel che è peggio, però, è che il peso del dalemismo lo porta anche Anna Finocchiaro, una mezz’ala capace di durezza, e il povero Pierluigi Bersani: se riuscirà mai a candidarsi, potrà farlo solo al congresso. Peso uguale e contrario (l’eredità prodiana) lo porta con devozione Rosy Bindi, un’ala estrema cui piacciono falli e scorrettezze, alla Amarildo.
Minestre sciape e riscaldate sembrano Guglielmo Epifani, Sergio Cofferati, Francesco Rutelli, tutti incapaci di garantire le mille facce del Pd. Così pure il giovane veltroniano milanese Maurizio Martina, la Giovanna Melandri, o il filosofo Massimo Cacciari, che le partite se le vede da sempre in tribuna. Cosa resta, allora, in questa gara segnata dagli autogol e dai mezzi-leader? La soluzione-ponte affidata al fraticello della compagnia, Dario Franceschini, che sembra non far male a una mosca. O la tutela di nonno Franco Marini fino al congresso, una «saracinesca» dc per evitare la fuga degli elettori dalle stalle.

«Siamo passati dallo Scudocrociato a un partito che è una croce», ha detto un deputato peone. In questo caso, se monetina confermasse, però lo specialista c’è: Piero Fassino. Pronto alla Via crucis, fino allo scioglimento di questo errore umano chiamato «Pd».

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