Non ricordi il giorno esatto in cui è successo. Sai solo che a un certo punto la Camera e il Senato sono diventati due vascelli fantasmi. Non puoi neppure dire che non c'è più un Parlamento. Esiste. Ci sono le mura. Ci sono Montecitorio e Palazzo Madama. C'è qualcuno che entra e che esce, solo che quei luoghi così centrali per la democrazia sono diventati periferici. Non contano. Il Parlamento è un club degli scacchi. È il posto dove Giuseppe Conte, per brevità chiamato premier, fatica a mettere piede e quando proprio non può farne a meno si limita a comunicazioni veloci. È lì che Matteo Renzi prova per mesi e mesi la mossa del cavallo, quella che dovrebbe disarcionare il governo, e la racconta a tutti, salvo poi rinviarla a un futuro più o meno prossimo e comunque indefinito. È l'aula sorda e grigia dove il pensiero più diffuso è resistere fino alla fine della legislatura, perché fuori non è detto ci sia lavoro.
Ecco, se si pensa a questo 2020 di contagi e quarantene quello che davvero è mancato nella politica italiana è il ruolo del Parlamento. Non è rassicurante. Al suo posto è stato riesumato un pezzo dell'ancien régime: le Conseil du Roi. Non si chiama più così, ma il senso è lo stesso. È il comitato tecnico scientifico. È lì che Conte accetta il confronto. È lì che cerca la fiducia. Al posto di senatori e deputati sono insomma spuntati i virologi. È la loro stagione e tutti bene o male ci siamo adeguati a questa rivoluzione per nulla silenziosa, come se fosse scontata, senza neppure farsi troppe domande su quello che stava accadendo. Siamo passati dalle chiacchiere sulla democrazia diretta di Rousseau alla repubblica di Platone come in un corso accelerato di dottrine politiche. Il 2020 è anche l'anno del silenzio dei politologi.
Non è il caso di farsene una colpa. Questo tempo ci ha fatto conoscere la mancanza di alternative. È qui la forza di Conte. Il contagio lo ha reso intangibile. Non si può far cadere un presidente del Consiglio al buio di una pandemia. Non è saggio e forse neppure morale. Conte non è mai stato però l'uomo della provvidenza. È riuscito a scontentare, a torto o ragione, tutti i partiti della maggioranza. Su di lui sono cadute maledizioni, ma ogni volta il discorso finiva in un vicolo cieco: non ci sono alternative. È il mantra politico di questi lunghi mesi, scandito dalle sue conferenze stampa, con Rocco Casalino come gran cerimoniere, e queste domande che non trovavano mai risposta, in un clima da cortina di ferro. Conte si è preso la scena, non da mattatore, ma come uno di quei personaggi che ti ritrovi a ogni angolo della tua vita, con quel sorriso da amministratore di condominio di cui non sai mai fino a che punto ti puoi fidare.
Su tutto, forse, è mancato il futuro. Non abbiamo più avuto il coraggio di immaginarlo. La proiezione più lunga era la settimana, scandita da divieti e tentativi di rincorrere il contagio. Ci siamo ritrovati a vivere sempre in ritardo, in affanno, con il fiato corto, come se il futuro fosse sempre un passo dietro le nostre spalle. È per questo che si fatica a progettare un piano per il Recovery. Non è pigrizia. È mancanza di immaginazione. Ricominciare? Ricostruire? È troppo.
La politica è solo burocrazia e amministrazione. Il resto è utopia. Non si riesce a guardare al di là dell'orizzonte più vicino e dopo c'è solo una macchia scura, che ci spaventa e turba questo sopravvivere senza un domani.
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