Fondi green e aiuti di Stato: altro regalo Ue alla Germania

Non modificando lo status quo, il piano von der Leyen favorisce la Germania. Vediamo perché

Fondi green e aiuti di Stato: altro regalo Ue alla Germania

Il piano proposto dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen per rispondere all'Inflation Reduction Act americano sembra avere un unico beneficiario, la Germania. Ed è più la scarsa ambizione della proposta europea che la questione anagrafica delle origini della politica sassone già ministro della Difesa di Angela Merkel a fare la differenza.

Il Green Industrial Plan, presentato ieri dalla von der Leyen, si basa principalmente sullo storno di fondi da iniziative precedenti, dal Green Deal europeo al piano REPowerEU, con l'obiettivo di creare filiere e catene del valore strutturate nelle industrie della transizione energetica. Rispondendo così, nelle intenzioni, alla marea di sussidi proposti da Joe Biden per l'industria americana.

La questione è legata principalmente alla volontà di non incidere sull'esistente ma di affidarsi a modifiche dello status quo. Non è dunque la "dottrina Breton" fondata sul desiderio del Commissario francese all'Industria di creare filiere di nuova generazione con investimenti ulteriori dell'Ue a vincere, ma il piano regolatore che alla programmazione strategica preferisce il linguaggio della burocrazia stringente. Parlando, cioè, del rillassamento degli aiuti di Stato in un'ottica di sistema non modificata sul fronte del governo delle regole di bilancio, dei tassi, degli equilibri nel mercato interno. E rischiando di far riproporre la situazione del 2022, in cui contro il caro energia gli aiuti di Stato deliberati hanno premiato chi aveva più margine di bilancio. Leggi Germania, Paese che ne ha approvato il 57% dei 672 miliardi che hanno avuto il via libera dalla Commissione.

Secondo Palazzo Berlaymont i finanziamenti pubblici possono sbloccare le enormi quantità di finanziamenti privati necessari per la transizione verde e sostenere la sfida industriale Usa. Come riporta Italia Oggi, "l’allentamento degli aiuti di Stato contrasta con una norma fondamentale per preservare la condizione di parità tra i paesi Ue, e con essa il mercato unico. Una parità che, di fatto, non esiste più da tre anni". Di fatto, la Commissione europea allenterà le norme sugli aiuti di Stato per sostenere gli investimenti nei settori verdi agendo principalmente attraverso la creazione di benefici fiscali, così da controbattere un punto-chiave dell'Ira, l'agevole possibilità di investire in settori di frontiera sfruttando i crediti d'imposta.

Del resto anche il Financial Times nota che "ciò che rende il dibattito così difficile in Europa è la misura in cui l'America stessa ha abbandonato le norme del commercio equo nella sua legislazione, che fornisce crediti d'imposta e sostegno federale a industrie che vanno dall'idrogeno e dalle batterie per auto elettriche ai pannelli solari e al carburante sostenibile per l'aviazione". E la Germania appare l'unica nazione capace di gestire questa risposta ricostruendo il suo modello industriale colpito dalla frana subita dall'ideologia mercantilista dopo Covid e guerra in Ucraina.

Con un mantenimento di regole allentate e sussidi stornati da altri programmi Ue, e non sostenuti da debito comune europeo, in altre parole chi ha più spazio fiscale o strumenti per occultare il deficit come la Kfw tedesca parte avvantaggiato. Vista la maggiore disponibilità di capitale, un impianto sussidiato dall'Ue costerà meno a Bruxelles se realizzato a Aquisgrana o Dortmund piuttosto che oltre il Reno a Strasburgo. E sarà ancora più conveniente rispetto a realizzarlo in Paesi come l'Italia o la Spagna, che avrebbero meno risorse dirette per aiutare le industrie europee. Il diavolo è nei dettagli: la Germania, assieme alla sempre austera Olanda, vuole da un lato sfruttare le regole favorevoli sugli aiuti di Stato e dall'altro giocare contro ogni nuova emissione di debito comune europeo, creando così una strutturale rendita di posizione che, complice le poche ambizioni europee, potrà concentrare ulteriormente il potere economico nel Vecchio Continente.

Dato che nell'industria della transizione il vantaggio competitivo si giocherà sulla parte a maggior componente tecnologica della catena del valore, e dato che l'autonomia strategica immaginata da Breton appare destinata a non realizzarsi nel frastagliato piano Ue, la Germania e i Paesi della sua catena del valore possono dominare la scena in campi come le batterie elettriche, l'idrogeno (già centrale nel Pnrr di Berlino), i carbuaranti sintetici e via dicendo.

Del resto, come scrivevamo su Inside Over in tempi non sospetti, Berlino era perfino pronta a una guerra commerciale che gli Usa erano pronti a muovere all'Europa e alle sue industrie e, anzi, non aspettava altro per potersi ridefinire come potenza a tutto campo dell'economia di frontiera e rispondere alla crisi aperta, anche con complicità Usa, per le ricadute a tutto campo della guerra in Ucraina. Per Olaf Scholz portare a casa un risultato del genere sarebbe un colpo da maestro, dato che gli investimenti per la transizione sarebbero veicolati dalla Commissione della sua connazionale von der Leyen e dalla Banca europea degli investimenti guidata dall'ex politico liberale Werner Hoyer. Ma dall'Italia al blocco mediterraneo, molti Paesi chiedono equità.

E anche la rivale di Breton, la Commissaria alla Concorrenza danese Margrethe Vestager, favorevole a un approccio regolatorio e non pianificatore, ha mostrato tutte le sue perplessità per i possibili squilibri alla concorrenza interna legata al piano comunitario. Insomma, ci sarà da lavorare. Ma la Germania riafferma, con il Green Industrial Plan, la sua centralità. Scalfita dagli eventi dell'ultimo anno ma non ancora tramontata.

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