Gaza, il piano post Hamas mentre si tratta per la tregua

A Parigi, negoziati con la Cia per la liberazione degli ostaggi Il documento di Bibi per la Striscia: smilitarizzazione e potere locale

Gaza, il piano post Hamas mentre si tratta per la tregua

Con una bozza di documento presentato al gabinetto di sicurezza israeliano, Netanyahu ha provato a immaginare un «piano per dopo Hamas». Il tentativo quasi impossibile di disegnare un futuro per Gaza, dopo che è diventata prima il backstage della strage più crudele che il mondo abbia visto dopo la seconda guerra mondiale, e poi il teatro della guerra più difficile del mondo, giocata da Hamas su scudi umani e battaglioni di terroristi che spuntano da sotto terra, ieri si è accompagnata con un’altra missione impossibile all’orizzonte: quella che porta anche Israele a una riunione a Parigi per discutere di uno scambio degli ostaggi con tutti i soliti interlocutori.
Mentre le famiglie dei rapiti bloccavano l’autostrada, sono partiti per la Francia oltre a Israele, gli americani, protagonisti, il Qatar e l’Egitto: si respira una speranza vaga e cinica creata da Sinwar ricomparendo all’orizzonte nei rapporti coi suoi compari in Qatar; si spera nell’idea che Hamas si contenti di qualche settimana di tregua abbandonando la richiesta impossibile che Israele cessi il fuoco definitivamente. Anche Gantz ha ripetuto ieri che questo non è possibile. Ma si spera che Hamas libererebbe alcune decine di ostaggi contro un numero incerto di criminali pesanti in quello che chiama «scambio di prigionieri» (chissà se mette sullo stesso piano Kfir Bibas, il bambino coi capelli rossi di un anno, sempre che sia ancora in vita, con Marwan Barghouti, cinque ergastoli, centinaia di morti innocenti sulla coscienza). Questo perché Ramadan è vicino: Hamas forse vuole arrivare da protagonista alla grande festa religiosa di 40 giorni che comincia il 10 marzo, evitare - con lo scambio - l’ingresso dell’esercito a Rafah, ormai zona affollata oltre l’immaginazione, di cui tutto il mondo parla ed essere il paladino dell’Islam e anche conservare il potere al sud, dove ancora ne detiene una parte a fronte delle macerie del nord e del centro.

Netanyahu, sostenuto da tutto il Parlamento che aveva votato mercoledì, destra e sinistra insieme, il rifiuto di uno Stato palestinese imposto unilateralmente e da fuori, in violazione di tutte le risoluzioni Onu e degli accordi di Oslo, oltre che del buon senso (nell’Ap l’85% dei palestinesi tiene per Hamas) adesso avanza un programma che si basa sul comune buon senso: sicurezza per Israele, prospettiva di potere locale, Stato palestinese quando sarà possibile. Netanyahu non lo esclude, e anzi invita alla necessaria presenza sul campo dei Paesi arabi non estremisti per sostenere un’ipotesi moderata.

Il programma ha tre caratteristiche. Prima di tutto, quella di rispondere direttamente alla richiesta di prospettiva posta spesso da Biden; si notano anche molti punti che ricalcano le sue richieste. In secondo luogo, disegna la partecipazione dei palestinesi alla gestione civile; infine, non si esclude l’Autorità Palestinese dal futuro governo, lasciando la porta a un eventuale Stato Palestinese.

Ma si vedrà: certo il programma respinge le solite illazioni che su tutti i giornali e gli schermi disegnano un’Israele intransigente e desideroso di occupare terra. Nessuno vuole Gaza, nessuno l’ha mai voluta, Israele e l’Egitto per anni hanno cercato di addossarne la responsabilità l’uno all’altro.

Netanyahu vuole concludere la guerra, garantire che Hamas non rinasca, disboscare l’odio islamista. Il programma prevede una prima fase di guerra fino alla distruzione di Hamas, e il ritorno degli ostaggi; successivamente, la prevenzione del pericolo che possa provenire da Gaza nel futuro, la sicurezza, che Israele non metterà in mano a nessuno nel periodo di mezzo, mantenendo libertà di operazioni per prevenire il ritorno del terrorismo; il confine con l’Egitto sarà chiuso contro infiltrazioni di terroristi e armi; la zona sarà demilitarizzata.

Gli Usa e l’Egitto saranno partecipi di questa scelta. Nella terza fase, «figure locali con esperienza amministrativa», ovvero palestinesi, dirigeranno la vita civile. Ma «non dovranno identificarsi con stati e organizzazioni che sostengono il terrorismo e non riceveranno un salario da queste entità» (è chiara qui il riferimento all’Unrwa che il documento chiama a rimpiazzare con un’altra istituzione, e all’Autonomia Palestinese che paga salari ai terroristi). Non si parla del ruolo dell’Ap e non si dice una parola contro la possibilità che governi la Striscia; si sostiene la necessità di deradicalizzare le istituzioni religiose e educative. Si accenna anche a una futura collaborazione con l’Arabia Saudita e gli Emirati nella ricostruzione, e anche questo sembra farina americana.

È chiaro che il documento è anche un gesto verso l’amministrazione americana, che non chiede a Israele di fermare la guerra, concordando con la costosa necessità di distruggere Hamas.

Anche alla proposta Algerina al Consiglio di Sicurezza dell’Onu quattro giorni fa per un cessate il fuoco, Biden ha di nuovo usato il veto. Diciotto dei 24 battaglioni di Hamas sono stati distrutti: gli altri 6 aspettano di riorganizzarsi a Rafah.

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