Uno strumento per aggirare le sanzioni, una leva per avere soldi facili, ma anche e soprattutto uno strumento per allargare la propria sfera di influenza. L'Iran ha imparato in breve tempo a sfruttare le criptomonete in tutti i modi possibili, come nel caso dell'attacco contro Israele. Lo spiega bene a Il Giornale Elham Makdoum, analista di crypto-intelligence, di blockchain analytics e di geopolitica delle criptovalute.
Cosa è successo venerdì e sabato sui mercati crypto ?
È accaduto che nel mercato criptovalutario, incluso quello dei futures sulle criptovalute, si è verificata una forte saturazione. I dati provvisori parlano di perdite complessive per 2,5 miliardi di dollari, mentre il bitcoin sperimentava un crollo del 7,7% nella nottata di sabato, scendendo a quota sessantamila dollari – il più grande calo da marzo 2023 –, risalendo e stabilizzandosi sui sessantatremila nel corso di domenica mattina.
Contrariamente a quanto si sta riportando, ovvero che il suddetto crash è da imputare al panico dei mercati per l'attacco dell'Iran a Israele, è difficile credere che abbiamo assistito a qualcosa di fisiologico. Anche perché nel caso specifico dei futures sulle criptovalute la saturazione era iniziata venerdì, perciò è errato e fuorviante parlare di reazione dei mercati all'assalto iraniano. Reputo molto probabile che l'Iran abbia liquidato una consistente frazione dei bitcoin che conserva nel suo portafogli. Non sono l'unica a pensarla così: secondo Ash Crypto, uno dei più noti e autorevoli insider del settore, a innescare la crisi sarebbero state delle operazioni di leva in short sul mercato dei futures effettuate da alcuni wallet iraniani. Operazioni in grado di produrre guadagni elevati in brevissimo tempo e che, in questo caso, potrebbero aver permesso a Tehran di coprire le spese dell'operazione contro Tel Aviv.
Come funziona questo tipo di operazione?
Se volessimo dare credito alla pista del ruolo iraniano dietro il crollo momentaneo dei criptomercati, che personalmente reputo più di una semplice ipotesi, si parlerebbe di manipolare il mercato attraverso delle “scommesse” sull'andamento di un determinato asset. Il bitcoin in questo caso. Potrebbe essere andata così: degli operatori iraniani hanno aperto delle posizioni di leva in short, verosimilmente anche di tipo 100x, sicuri del futuro andamento ribassista per via del certo impatto sul sentiment degli investitori che avrebbe avuto l'attacco a Israele. Le operazioni di leva tendenzialmente servono lo scopo di incrementare la propria liquidità in tempi brevi. Possono durare dai cinque ai sessanta minuti, ma a volte anche meno di cinque minuti.
Come sappiamo che dietro al crollo potrebbe esserci l’Iran?
Non tutti possono creare questo tipo di manipolazione violenta del mercato. L'Iran è uno di quei pochi attori che potrebbe. Si stima che Teheran mini il 5% di tutti i bitcoin annualmente, attività che gli rende più di un miliardo di dollari, ma sicuramente i numeri sono più alti: gli iraniani e i loro proxy possiedono molte mining farm clandestine, che generano introiti non dichiarati (e non quantificabili).
Come accennavo prima, questa ipotesi è stata messa in circolazione da alcuni degli insider più celebri del settore, persone che operano nel mondo delle crypto dal giorno uno e che vantano il possesso di informazioni privilegiate e di contatti altolocati. Appunto perché plausibile, dato il vasto crypto-wallet di Teheran e la sua inclinazione alla speculazione, la tesi attecchiva rapidamente sul blog di Binance, la più grande crypto-exchange del pianeta, qualche ora dopo essere comparsa. Il fatto è che quando l'Iran si muove nel mercato, non può passare inosservato per via della quantità di asset digitali detenuti. A maggior ragione se decidesse di liquidarli, o di shortarli, come in questo caso.
Di che operazione parliamo in termini quantitativi?
È più che plausibile che Teheran, durante la grande liquidazione iniziata venerdì sera e accelerata nelle ore dell'attacco a Tel Aviv, abbia shortato alcuni dei suoi bitcoin allo scopo di rientrare nei costi dell'operazione militare per poi ricomprarli a un prezzo più basso. Se realmente l'Iran avesse innescato questa speculazione, che il pianificato panico tra gli investitori ha poi fatto degenerare in un crollo del mercato, avrebbe guadagnato tanto facilmente quanto velocemente. Faccio un esempio: prima dell'attacco il bitcoin era arrivato a settantunomila dollari, ossia era sufficiente venderne uno per ripagare tre droni della famiglia Shahed, che costano all'incirca ventimila dollari cadauno, e guadagnarci anche. Sappiamo che l'Iran ha impiegato centosettanta droni contro Israele, gli sarebbe bastato vendere cinquanta bitcoin per ripagarli tutti – e l'Iran di bitcoin ne ha tantissimi. In questo quadro non abbiamo calcolato le operazioni di shortaggio avvenute nei mercati dei futures, che, stando alle prime risultanze, si sono verificate quando il bitcoin era attestato sui settantamila dollari. Gli introiti derivanti da queste manovre potrebbero essere enormi. L'Iran potrebbe aver sia recuperato i costi dell'assedio dronico-missilistico sia guadagnato, e tutto questo mentre Israele spendeva più di un miliardo di dollari per difendersi dallo sciame. Economicamente e strategicamente parlando, se la pista iraniana venisse confermata, si potrebbe certamente parlare di indiscutibile successo.
Anche Hamas ha fatto un’operazione simile prima del 7 ottobre?
Sì. Pare che degli operatori delle Brigate ʿIzz al-Dīn al-Qassām abbiano scommesso contro i titoli israeliani nei giorni precedenti all'attacco del 7/10. Ma in questo caso la manovra speculativa era avvenuta nei mercati tradizionali. In questo caso, ritengo che l'Iran abbia puntato sul mercato criptovalutario per il semplice fatto che era weekend, ovvero borse tradizionali chiuse.
Come ha fatto l’Iran a diventare una potenza delle crypto?
L'Iran e l'Asse della resistenza hanno fatto l'allunaggio in quello che mi piace chiamare il criptoverso già da parecchio tempo, perciò vantano un know-how significativo in materia di uso delle crypto, di mascheramento nelle blockchain e di navigazione nel web oscuro. L'Iran e l'Asse della resistenza hanno una loro criptovaluta preferita, Tron, che usano molto frequentemente per via del fatto che garantisce delle transazioni ultraveloci, uno pseudoanonimato maggiore rispetto alle altre crypto, bitcoin incluso, e una certa indipendenza dalle altre blockchain.L'Iran possiede anche molte mining farm clandestine, similmente alla Cina, perciò non è possibile sapere nel dettaglio quanto incassi – si può solo stimare.
Dove lo collocherebbe in una classifica globale? E che rapporto ha coi suoi proxy?
Direi che l'Iran rientra sicuramente nella top dieci delle maggiori cripto-potenze, insieme a Stati Uniti, Cina, Corea del Nord, Russia e Nigeria. Gli iraniani realizzano introiti anche dai cyberscam, sostanzialmente truffe nelle quali si chiedono pagamenti in criptovalute alla vittima di turno, che talvolta conducono di concerto con soci russi, nordcoreani e cinesi. Nel 2023 in India fu scoperta una rete di cripto-truffatori di nazionalità cinese che, curiosamente, mandavano parte dei loro profitti a portafogli legati ad Hezbollah.
Sembra che il mondo delle crypto attiri soprattutto una certa parte del mondo (non) occidentale...
Il mining delle criptovalute va moltissimo in Paesi che, come l'Iran, sono alla perenne ricerca di modi per evadere i regimi sanzionatori che opprimono le loro economie. C'è chi poi, come la Cina, è stato scoperto ad aprire e ad operare mining farm clandestine, talvolta costruite sottoterra, in luoghi impensabili come la Libia. Nel caso cinese ritengo che gli investimenti in mining farm avvengano per estendere la sfera d'influenza nel criptoverso. Nel mondo non occidentale l'interesse per le criptovalute è forte anche nel contesto della dedollarizzazione: i BRICS+ stanno puntando allo sviluppo di un sistema di pagamento digitale basato su blockchain, mentre Russia e Iran stanno sperimentando una stablecoin congiunta nella zona economica speciale di Astrakhan'. In quella parte di mondo non occidentale che sogna di smarcarsi dall'Occidente le criptovalute non vengono viste come una mera bolla, come un modo per fare soldi facili, perché il framing cognitivo è completamente differente. Qui si è capito il vero potenziale delle criptovalute, che difatti sono impiegate come uno strumento anti-sanzionatorio, come una valuta alternativa su cui costruire economie parallele, e come un aspirante anti-dollaro.
Chi altro ha messo gli occhi sulle cripto?
La verità è che un po' tutti hanno adocchiato le criptovalute, persino le organizzazioni terroristiche come lo Stato Islamico, che è l'autore, peraltro, di un manifesto sulla finanza decentralizzata come via all'emancipazione della finanza occidentale dei kāfir. Abbiamo la Russia che ha cercato di allungare le mani sull'estero vicino degli Stati Uniti con un progetto criptovalutario: il Petro venezuelano, la prima criptovaluta di stato della storia. Abbiamo la Cina che sta aprendo mining farm qui e là negli Stati Uniti, in particolare in Texas, e che – pochissimi lo sanno – è la mente del pionieristico esperimento salvadoregno di Nayib Bukele che ha dato corso legale al bitcoin.
Qual è l’apporto della Cina?
Il Dragone si è sempre mostrato agli occhi del mondo come l’antagonista delle criptovalute ma il dietro le quinte riservava uno spettacolo ben più complesso ed interessante. La Cina ha capito immediatamente il potenziale delle criptovalute ed è per questo che ha sostanzialmente ingannato il suo avversario, gli Stati Uniti, proclamando una sorta di ban all'ombra del quale ha costruito mining farm in tutto il mondo. In pubblico vietare, in privato minare. Strategia che ha avuto successo laddove gli Stati Uniti, sviati dall'apparente diffidenza della Cina verso le criptovalute, hanno dedicato poca attenzione al fenomeno e si ritrovano oggi a dover rincorrere il Dragone nel criptoverso.
Come si muove la Repubblica popolare?
La Cina è una big whale, probabilmente è la più grande cripto-potenza al momento, e spesso collabora con Russia, Iran e Corea del Nord per compiere cripto-crimini, per occultare e lavare denaro illecito e per consumare azioni di guerra ibrida nel criptoverso. Fra i quattro c'è persino uno scambio di know-how. Nel caso specifico della connessione tra Iran e della Cina ,le criptovalute rappresentano il collegamento diretto: nel 2022 sono stati esportati 1,3 milioni di barili di petrolio dall’Iran alla Cina uno scambio transfrontaliero cryptofriendly.
Nel 2021 è stata rinvenuta una mining farm iraniano-cinese nel sud-est del paese (Iran) ,un progetto che è stato interrotto per via di problemi tecnici dovuti alle gravi interruzioni di corrente che avevano colpito l’Iran in quel periodo, tuttavia la chiusura era solo temporanea dunque è molto probabile che la mining farm iraniano-cinese sia tornata in funzione.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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