Chi frena l'offensiva su Gaza

Il ritardo nell'avvio dell'ingresso dei militari israeliani nella Striscia sarebbe dovuto a divisioni interne al governo e a malumori nei rapporti con l'esercito

Chi frena l'offensiva su Gaza
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Il via libera all’operazione di terra dell’esercito israeliano tarda ancora ad arrivare. A quasi tre settimane dalla strage del sukkot e dopo il discorso pronunciato alla nazione mercoledì sera dal premier Benjamin Netanyahu l’ingresso delle forze di Tsahal nella Striscia di Gaza sembrava essere imminente. Il New York Times riporta adesso come il ritardo dipenda dalle incertezze di Bibi e dalle divisioni interne al governo di Tel Aviv che starebbero mettendo in crisi il già difficile rapporto tra la classe politica e i militari.

La necessità di tutelare gli oltre 200 ostaggi in mano ad Hamas e ad altre organizzazioni ad essa collegate spiegherebbe solo in parte il prolungarsi dei bombardamenti e dell’attesa per quella che viene considerata la battaglia finale contro i militanti islamisti che controllano la Striscia dal 2007. Alcuni membri del governo temono che le forze di Tsahal possano rimanere impantanate in una sanguinosa guerriglia urbana. Altri invece guardano con preoccupazione alla possibilità che Hezbollah si unisca al conflitto aprendo un secondo fronte a nord, ancora più pericoloso di quello al confine meridionale.

Anche tra gli esponenti politici che sostengono l’operazione militare di terra non c’è accordo sulle modalità di intervento a Gaza e la linea di divisione separa chi vorrebbe un attacco massiccio da chi preferirebbe incursioni su piccola scala non molto diverse da quelle eseguite dai commando israeliani nei giorni scorsi in stile Fauda, la celebre serie televisiva.

Un altro grande interrogativo riguarda la gestione del day after nella Striscia. Non appare infatti chiaro chi amministerà l’enclave palestinese dopo l’eliminazione degli uomini di Hamas. “Ci sono diverse opinioni nel governo” afferma al New York Times Danny Danon, un membro della Knesset (il Parlamento israeliano) appartenente al partito del premier, il Likud, il quale aggiunge che “alcuni dicono che dobbiamo cominciare l’operazione e solo dopo pensare alla fase successiva. A livello di leadeship però dobbiamo stabilire degli obiettivi ed essi devono essere molto chiari”.

I contrasti interni al gabinetto di guerra in cui è entrato anche Benny Gantz, uno dei leader dell’opposizione, si estendono anche ai rapporti tra il premier e il comando militare. Il quotidiano americano riporta che Netanyahu si rifiuta di firmare il piano d’invasione finalizzato dai vertici dell’esercito provocando grande irritazione tra gli ufficiali. Secondo questa ricostruzione Bibi intenderebbe cambiare idea solo dopo aver ottenuto l’appoggio unanime da parte di tutti i componenti del governo di emergenza anche se non sarebbe da escludere uno sblocco dello stallo e il possibile ingresso delle forze di Tsahal a Gaza già nella giornata di venerdì.

La questione degli ostaggi torna spesso nel dibattito che sta lacerando il Paese. Il ministro della Difesa, Yoav Gallant, è portavoce della linea dei falchi e in un recente intervento pubblico non ha indicato la liberazione dei connazionali tra gli obiettivi militari. L’esercito sarebbe contrario a quello che sembra essere la strategia di Bibi: distruggere l’organizzazione islamista appoggiata dall’Iran salvando allo stesso tempo gli ostaggi nascosti nella metro di Gaza.

Nessuna grande guerra è avvenuta con Netanyahu al potere. Non è mai stato rapido a mobilitare i militari, il che è in linea con il suo carattere e la sua esperienza” dichiara Anshel Pfeffer, autore di una biografia sul premier. Al potere da 15 anni tranne per una breve interruzione, prima degli attacchi del 7 ottobre il leader israeliano era soprannominato "Mr Sicurezza" per la relatività stabilità che aveva garantito al Paese. Persino l’incursione limitata nella Striscia da lui autorizzata nel 2014 era stata sufficiente a consolidare la sua immagine di protettore del Paese dalle minacce esterne.

L’esitazione quasi shakespeariana che attanaglia il premier in realtà coinvolge l’intera società israeliana.

Un sondaggio appena pubblicato mostra infatti come solo il 49% degli intervistati preferirebbe ritardare l’operazione di terra a Gaza mentre, in poco meno di una settimana, i favorevoli ad un’escalation immediata sono passati dal 65% al 29%.

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