«Che Allah bruci Hamas». «Hamas ci ha portato un disastro». E altro ancora. Questi post appaiono per la prima volta in questi giorni a Gaza. Il giornalista Khaled Abu Toameh spiega: anche a Gaza comincia a formicolare fra le case distrutte e la gente in fuga verso le zone indicate da Israele come spazi di non belligeranza, l’idea che l’uso cinico della popolazione come scudo umano abbia trascinato l’intera Striscia, i suoi abitanti, in un disastro senza precedenti. Filtrano le spiegazioni che Israele ripete in arabo tramite i suoi speaker: raccontano di nuovo la strage, la guerra seguita all’aggressione cui è obbligato a rispon« dere per sopravvivere, spiegano che Hamas usa la gente, chiede di allontanarsi dalle strutture prese di mira.
L’idea è anche che Yahya Sinwar e Mohammed Deif abbiano sbagliato i loro calcoli; che il piano per cui dopo il genocidio si resta al potere non funzioni, e che il ruggito d’odio si stia trasformando in debolezza con la determinazione di Israele a combattere fino in fondo. Hamas non se l’aspettava: in Medio Orientale la debolezza è la fine. Sinwar ha cercato di trascinare le interruzioni per le restituzioni fino a una vera tregua nella quale salvare il suo potere. La sua arleader che ha sepolto vivo un suo compagno accusato di fare il gioco di Israele, ma ora può diventare un criminale che ha portato solo disastri. Kamala Harris mentre Israele usciva verso la nuova offensiva, ha di nuovo ribadito la linea Usa per cui da una parte Israele deve distruggere Hamas, e dall’altra non spostare la popolazione, rispettarne l’integrità, non occupare spazi che devono invece essere conservati per un futuro in cui l’Autonomia palestinese di Abu Mazen ne prenda il posto «rivitalizzata».
Harris vede una conclusione che ancora purtroppo sembra lontana, • ma, i bambini e le donne rapite dieci a dieci, usate con ritardi e diminuzioni, con giochetti psicologici le ha usate fino a rifiutare di mantenere la promessa per conservarsi le carte migliori, ma Israele gli ha scoperto la trappola.
Su Gaza, gli aerei di Israele volano di nuovo, presto comincerà la battaglia di terra; Khan Yunis, la città di Yahya Sinwar, quella in cui il 90 per cento si dichiara un guerriero di Hamas fin dall’età di cinque anni, dall’alto appare ormai come un cumulo di rovine, da là ieri certamente sono piovuti meno missili. Sotto terra, però l’intreccio delle gallerie è efficiente, forse Sinwar prepara sorprese, forse una fuga in Egitto. La sua crudeltà è la sua forza, tutti hanno paura di un e suggerisce soprattutto la nostalgia per una formula in cui anche i palestinesi sembravano potere avere una faccia moderata. Il tempo, i mille no, gli stipendi ai terroristi di Abu Mazen, la mancata condanna delle azioni di Hamas suscitano dubbi: «Hamas vinse le elezioni a Gaza contro Fatah; Hamas lo sconfisse e lo buttò dai tetti. Oggi in Cisgiordania il favore per Hamas è dell’80 per cento, a fronte del 60 per cento pro Fatah», dice Abu Toameh. Paradossalmente è più facile che si accorga dell’orrore di Hamas la gente che ha visto uscire i kalashnikov e i missili dalle scuole e da sotto il letto dei bambini, della schiera di Abu Mazen.
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