Diceva Michael Novak, filosofo americano morto nel 2017, che gli europei amano l’America quando governano presidenti democratici, perché quelli repubblicani non li capiscono. E Trump, per noialtri di qua dall’Atlantico, è come le incisioni della lineare A, per tradurlo, letteralmente, si diventa campioni mondiali di pazienza e fa venire una gran voglia di stracciarlo a Scarabeo.
Le frasi sono frammentate, balbuzienti, incompiute, una cascata di subordinate connesse dai classici intercalari americani: «so», «you know» o «anyway» (ovvero «così», «sai» o «comunque»). Si chiamano non-substantive words o discourse markers e sono connettori che punteggiano il procedere dell’eloquio pur non avendo sostanzialmente valore semantico.
Va matto per le ripetizioni e per le anafore, quando cioè si ripete all’inizio di un verso o di una frase la parola o l’espressione con cui si è cominciato il verso o la proposizione. Maurizio Costanzo lo intervistò nel 2002: alla domanda «Chi le ha insegnato, da ragazzo, la differenza tra il bene e il male, suo padre o sua madre?», Trump rispose: «Ho avuto due genitori spettacolari, entrambi mi hanno insegnato che c’è una bella differenza tra il bene e il male, e sono stati entrambi a insegnarmelo».
Nella prima intervista che concesse al New York Times dopo l’elezione (del quotidiano disse: «È sbagliato. Si sbagliavano. È il New York Times, si sbagliano sempre. Si sbagliavano»), alla fine di novembre del 2016, ripeté quarantuno volte il termine «great», venticinque il verbo «win», sette volte «tremendous». C’è un video su YouTube di un’intervista fatta quand’era ancora in campagna elettorale da Jimmy Kimmel, il conduttore televisivo del talk show Jimmy Kimmel Live!: duecentoventi parole in sessanta secondi. Di queste, 172 parole (il 78 per cento) sono monosillabi, 39 sono bisillabi, 4 sono trisillabi che, tre volte su quattro, sono «tremendous». Il campo lessicale del presidente è infarcito di superlativi e di iperboli: good, great, greatest, wow, big, billion, very, amazing, the best, yuuuuuge. È tutto fantastico, una meraviglia, una barca di soldi, una grossa mano, formidabili uomini, bellissima attrezzatura militare, il mondo intero sta esplodendo, potenziale enorme, vero al 100 per cento, vinceremo così tanto che sarete stufi di vincere, un controllo estremo, taglieremo le tasse alla grande (l’avverbio «bigly», traducibile anche con «di brutto», fu uno dei vocaboli che lasciò più di stucco i linguisti: Trump lo utilizzò nel primo dibattito contro Hillary Clinton).
Uno studio del Boston Globe ha esaminato i discorsi di candidatura dei presidenti statunitensi attraverso un algoritmo chiamato Flesch-Kincaid reading test, un test di comprensione del testo che elabora la scelta delle parole e la struttura delle frasi nato nei laboratori dell’esercito americano negli anni Settanta. Il linguaggio dei candidati, da George Washington fino a noi, si è via via semplificato, ma Trump ha una complessità sintattica comprensibile a un alunno di quarta elementare.
Nella scrittura non gli va meglio: utente bulimico di Twitter prima che diventasse X, ha sempre fatto sbellicare giornalisti e cittadini e schiumare di rabbia il suo staff. Indimenticabile il «despite the constant negative press covfefe» postato il 13 maggio 2017: «Nonostante la costante covfefe negativa della stampa» (si diceva della lineare A, no?). Nel libro How Trump thinks, Peter Oborne e Tom Roberts hanno stilato il lessico di Trump sui social media e cominciano spiegando i codici di punteggiatura utilizzati dal presidente. Le virgolette indicano il cinismo, ???? l’incredulità, !!!!!!! l’incredulità estrema, TUTTO MAIUSCOLO la collera (vedi la reazione all’endorsement di Taylor Swift a Kamala Harris). Gli autori rilevano la totale assenza di frasi come «chiedo scusa», «mi dispiace», «mi rammarico», riflessione che s’inserisce nella retorica, se non nella psicologia, manichea del tycoon: o stai con noi o stai con gli altri, o sei una persona perbene che lavora sodo o sei un criminale, o sei legale o sei illegale. E in questo scontro spirituale tra bene e male, lui è l’escatologica promessa di redenzione e di gloria. Del linguaggio di Trump – l’“idioletto”, direbbero quelli bravi, ovvero la lingua individuale, la particolare varietà d’uso del sistema linguistico che è propria di ogni singolo parlante e sua soltanto – è stato detto che non ha alcun senso, che usa vocaboli elementari, che fa discorsi vaghi e sbruffoni, che non sa adattare un discorso al contesto, che fa riflessioni infantili, che alterna la semplicità estrema all’assurdità totale. Ma nell’imitare una conversazione naturale, appare autentico, affidabile e appassionato, spontaneo, uno che non usa mezzi termini e che dà l’impressione di avere un dialogo intimo con gli elettori invece di tenere un comizio artefatto e sorvegliato. È tutto nel discorso del suo secondo trionfo elettorale, «il più grande comeback della storia»: «Non è pazzesco? È una vittoria politica che il nostro Paese non ha mai visto prima. Non c’è mai stato niente di simile», «abbiamo anche vinto il voto popolare. È fantastico. Grazie mille. C’è un grande sentimento di amore in questa grande sala con persone incredibili accanto a me». «Erano gare difficili e il numero di vittorie al Senato è stato assolutamente incredibile. È incredibile vedere tutte queste vittorie». Poi ricorda la mamma di Melania, Amalia Ulčnik, morta il 10 gennaio 2024: «Ci manca molto. Ci manca Amalia, vero? Sarebbe così felice ora, in piedi su questo palco. Sarebbe così orgogliosa. Era una grande donna. Bella dentro e fuori. Era una grande donna». Ringrazia tutti e, per ultimo, ringrazia il «supergenio» Elon Musk che, ovviamente, «è un ragazzo straordinario». Va in sollucchero nel parlare di un razzo mandato nello spazio due settimane prima che «bruciava da morire» e di Starlink: «Chi altro può farlo? La Russia può farlo? La Russia? No. La Cina può farlo? No. Possono farlo gli Stati Uniti? A parte lui, nessuno può farlo». E chiude: «Sistemeremo tutto. Governerò con il motto: “Promesse fatte, promesse mantenute”. Realizzeremo il futuro più incredibile per il nostro popolo. Il futuro dell’America sarà più grande, migliore, più audace, più ricco, più sicuro e più forte di quanto sia mai stato». Dolly Parton ha osservato che ci vogliono un sacco di tempo e un sacco di soldi per sembrare a buon mercato. E forse soltanto uno coltissimo può fingere di essere stupido. D’altronde, si è rivelato lui: «I’m very highly educated. I know words. I have the best words» («Sono altamente istruito. So le parole. Ho le parole migliori»). Se volessimo tradurre l’uomo più che il vocabolo «best», dovremmo scrivere «parole oneste» o, più messianicamente, «vere».
Quando si ha a che fare con personaggi complessi come Donald Trump il rischio è sempre di vederne di volta in volta solo un aspetto, senza beneficio di sfumature. Ma il due volte presidente, l’imprenditore newyorkese, la star della Tv, il bancarottiere, il donnaiolo che investe nel wrestling e nei concorsi di bellezza, il candidato antisistema, il giustiziere della democrazia, è fatto di contrasti ma non di contraddizioni e bisogna prendere l’uomo a blocchi e poi rimetterlo insieme. Anche per questo, Trump non è affatto un’araba fenice, la bestia mitologica di cui si abusa per spiegare quando uno è sul punto di non farcela e invece ce la fa: quella è un uccello che vive cinquecento anni, poi costruisce un nido e vi muore sopra per autocombustione generata dai raggi del sole; tre giorni dopo rinasce da un uovo che compare tra le frasche del nido e ricomincia da capo.
La fenice muore e rinasce senza motivo e senza fatica, senza correre alcun pericolo, senza dover affrontare minacce alla sua resurrezione. Quaggiù non funziona mai così. E Trump ha dovuto rinascere dalle ceneri perché consapevole artefice della sua autocombustione.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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