
Wall Street non è contenta dei dazi e ha ragione, ma deve accettare che Main Street ha mandato The Donald alla Casa Bianca. E l'Europa deve essere cauta verso nuovi mercati perché rischia di cadere dalla padella nella brace.
Gli Stati Uniti stanno mettendo in discussione una globalizzazione durata circa trent'anni, in cui l'economia ha creato una ricchezza mai vista prima, grazie a 164 Paesi che aderendo al WTO hanno agevolato oltre il 90% degli scambi. Tutti ne hanno beneficiato ma qualcuno di più. A parità di potere d'acquisto il Pil pro-capite americano ed europeo sono triplicati, mentre quello cinese cresceva di dodici volte. L'economia lasciata libera ha portato le produzioni dov'era più conveniente, tipo fabbricare la Vespa in Vietnam.
Questo spiega come i dazi americani non vogliano servire l'economia ma la politica che, pur favorendo gli animal spirits, ha il compito di distribuire secondo esigenze sociali la ricchezza prodotta. All'interno con le tasse e all'esterno coi dazi che bilanciano squilibri tra Paesi, quando il lavoro e/o l'energia costano molto meno ovvero ci sono meno vincoli e norme da
rispettare. Da anni sentiamo dire che il mercato va bene ma dev'essere anche governato. Bene, quel governo è arrivato, si chiama dazi. Cos'è, pensavano che fosse indolore?
Certo, è tutto da dimostrare che poi raggiungano l'obiettivo, vista la complessità delle filiere produttive globalizzate e interconnesse. Com'è da verificare la previsione di Fukuyama secondo cui questa «decisione idiota» alla lunga ci porterà alla guerra, replicando quanto accadde un secolo fa col protezionismo. A parte che il politologo aveva pure dichiarato a fine 900 «la fine della storia» che poi non è finita, va ricordato che l'idea aristotelica che la storia si ripeta ciclicamente è stata da tempo sostituita con una visione lineare di sviluppo continuo.
L'Europa, cosa può fare? Intanto, evitare un fallo di reazione che trasformerebbe un problema in un disastro colossale. Poi capire che questi dazi non sono l'idiozia di uno uomo solo, che idiota non è, quanto la risposta, magari poco efficace e certamente dannosa, a tanti squilibri del commercio globale che molti cittadini non vogliono più sopportare. Oggi di là dell'Atlantico: quando anche di qua? Più che reagire, dovremmo forse valutare se anche l'Ue non abbia da aggiustare
qualche rapporto commerciale verso oriente, altro che «via della seta».
L'economia è troppo interconnessa perché la globalizzazione possa davvero finire, ma nemmeno si può credere che prosegua come prima, sostituendo un cliente del Texas con uno del Kerala, che potrebbe non rivelarsi quel goloso boccone che immaginiamo. Eventuali nuovi accordi di scambio non sarebbero certo a senso unico.
Se importano da noi, vorranno che noi importiamo da loro, ma in questa partita la maglia del sistema industriale europeo ha più i colori di quella americana che dei Paesi emergenti, su lavoro, energia e vincoli ambientali: scommettiamo che a loro toccherebbe la metà più grossa?In conclusione, la globalizzazione può essere aggiustata nei suoi squilibri e continuare a creare ricchezza, forse un po' di meno ma pure con meno mal di pancia. L'alternativa? Meglio non pensarci, molto meglio.
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