Usa pronti all’attacco in Siria e in Iraq. Crosetto chiede fondi

Il Pentagono individua obiettivi da colpire dopo l’uccisione dei marines in Giordania. Il ministro: "Servono nuovi finanziamenti"

Usa pronti all’attacco in Siria e in Iraq. Crosetto chiede fondi
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Il nuovo probabile scenario di guerra era stato evocato solo ieri mattina da Guido Crosetto. Il ministro della Difesa intervenendo davanti alle commissione Difesa di Camera e Senato aveva esposto i rischi di un allargamento del conflitto mediorientale e la probabile necessità di finanziamenti aggiuntivi rispetto ai 28 miliardi previsti nel 2024 per la Difesa. Neanche 12 ore più tardi la nuova guerra era già all’orizzonte. E con essa il rischio che la sofferta missione navale europea Aspides, pronta a prendere il mare soltanto dopo 17 febbraio, si rivelasse inadeguata ancor prima del varo. Ieri il Pentagono ha, infatti, comunicato di esser pronto a colpire obbiettivi iraniani in Siria ed Iraq. La rappresaglia, destinata a scattare già nelle prossime ore e a prolungarsi per almeno cinque giorni, rappresenta la risposta all’incursione sulla base giordana Tower 22 costata la vita, domenica scorsa, a tre militari statunitensi. La decisione di colpire obbiettivi iraniani si baserebbe sui rilievi condotti sui resti del drone. Secondo il Pentagono il velivolo - penetrato nel perimetro della base all’intersezione del confine giordano con Iraq e Siria - sarebbe di costruzione e provenienza iraniana. Ma la scelta di «punire» i pasdaran iraniani non è legata soltanto all’origine del drone. Secondo l’intelligence Usa «Resistenza Islamica d’Iraq», il gruppo armato che ha rivendicato il raid su Tower 22, altro non sarebbe se non una creatura dei pasdaran della Repubblica Islamica. I Guardiani della Rivoluzione oltre a curarne addestramento e armamento ne indirizzerebbero l’attività attraverso i loro comandi in Iraq e Siria. Su questi comandi e sulle loro infrastrutture si concentreranno probabilmente gli attacchi missilistici e le incursioni pianificate dal Pentagono. Ma i nuovi raid, aggiungendosi a quelli che già colpiscono le infrastrutture dei miliziani Houthi nello Yemen, rischiano di provocare un allargamento incontrollato del conflitto. Washington, seguendo la strategia delineata da Joe Biden, ripete di non aver alcuna intenzione di arrivare ad uno scontro diretto con la Repubblica Islamica. Ma un intervento sui centri di comando dei pasdaran in Siria e Iraq comporterà inevitabilmente una risposta degli alleati di Teheran. Le basi siriane affidate a 900 uomini delle forze speciali americane e quelle irachene controllate da altri 2500 soldati rischiano di diventare l’epicentro di nuovi e ben più estesi attacchi. Anche perché il premier iracheno Mohammed Shia al-Sudani, considerato molto vicino a Teheran, chiede da oltre un mese il ritiro del contingente statunitense. Un’involuzione della situazione potrebbe dunque spingere alcuni reparti dell’esercito iracheno a far propri gli appelli del premier schierandosi al fianco delle milizie. In Siria l’intervento americano minaccia di spingere oltre il livello di guardia la tensione con una Russia presente al fianco delle truppe di Bashar Assad. Tutto questo contribuisce a mettere ulteriormente a rischio gli oltre trecento militari italiani coinvolti nell’addestramento delle forze della gendarmeria e dell’esercito iracheno.

I nostri militari oltre ad esser considerati stretti alleati degli americani spesso alloggiano nelle loro caserme. E questo li rende ancor più esposti alle rappresaglie della Resistenza islamica d’Iraq e di tutte le altre milizie sciite.

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